Mekong Hotel

Mekong Hotel (2012) – Apichatpong Weerasethakul

“Il cinema è come un fantasma, non esiste nel presente, è solo l’ombra di quello che accade. È catturare il passato. Non esiste ma in contemporanea è qualcosa di molto solido, perché cattura sull’obiettivo tutto ciò che è morto. Bisogna distruggere l’idea di cinema come istituzione, oggetto reale, per sperimentarne il potere, la benedizione, cercando di catturare il processo stesso di creazione dell’illusione. Il cinema è una cosa piccola, di così poca importanza. Ma a me interessa molto lavorare con questo strumento poco importante per riflettere su qualcosa di semplice e profondo allo stesso tempo: la vita è così piccola.” (Apichatpong Weerasethakul)

Cinema extracorporeo da microcosmo, in cui lo spettro d'(in)azione narrativo si svolge in questo Overlook Hotel thailandese, in cui la “REDRUM” viene capovolta palesando un animismo a forza centripeta e non più centrifuga, assumendo una funzione immersiva e non più emersiva, ospitando stavolta il passato dei fantasmi e non più i fantasmi del passato. Struttura sciamanica e commemorativa, nella quale, tra l’altro, ogni effimerità umana e/o umanoide risulta dilatata o, meglio, eternizzata, per via della ritualità, reiterazione della reminiscenza, in questo (non)luogo misterioso, ritratto a modo di stazione sospesa nel vuoto storico, antropologico, temporale, come inattuabile punto d’incontro tra regno filogenetico e mondo fantasmatico, centro gravitazionale in cui convergono nostalgie deambulanti. (il) Mekong Hotel è sito archeologico nel quale (r)incontrarsi senza appuntamento. Il Cinema di Weerasethakul concede, offre uno spazio, ospitando assenze e presenze, inglobando passato e presente, inquadrando il tutto con sensitività pneumatica. Il regista thailandese, con questa pellicola, dà voce ed introduce ad un pragmatismo ectoplasmatico di impronta anamnetica, in cui entità e verità mnemoniche si manifestano in un Reale nel quale il metafisico diventa confessione tangibile e testimonianza escatologica di negazioni filmiche e fallimenti sociali, raccolti all’interno di un limbo cementato, simboleggiante un’eterotopica fermata situazionale in cui stagnano, appunto, i sopracitati racconti dii sottrazioni politiche, esistenziali, artistiche, etc.

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Nel film, i vari protagonisti mangiano la carne (come la tigre in Tropical Malady [Sud Pralad; 2004]), la quale rappresenta una sorta di stargate organico che collega il mondo fisico a quello metempirico. La suddetta azione permette ad essi di riconoscersi, appunto, attraverso gli altri o, meglio, tramite l’Altro, e di perpetuarsi fino a diventare un tutt’uno con i fantasmi, anzi, diventando loro stessi i fantasmi, ovvero entità che smettono di esistere per poter, comunque, in-esistere. Illusioni, apparizioni orizzontali, intrappolate in questo empireo di calcestruzzo, le quali, come segno del loro passaggio, rilasciano strascichi memoriali, echi di voci familiari. Infatti, ad esempio, durante il minuto 24:23 viene mostrato un letto vuoto sul quale c’è una macchia, scia di sangue, che raffigura il passaggio di tali esseri. Nel finale – controcampo definitivo e liberante dell’intera filmografia del regista – avviene come un corto circuito percettivo, in cui il quadro filmico, nella sua totalità, sembra invitare lo spettatore a riflettere, a vedere, a (ri)dare un senso (improbabile) a ciò a cui ha assistito finora. Il pubblico osserva, si lascia cullare, trasportare (e stimolare!) da una calma formante e illuminante, nel quale il suo ruolo viene ri(n)definito per via dell’impossibilità di catturare un’Immagine destrutturante, ovvero in costante mutamento, che fluisce, appunto, come l’acqua, come il fiume. Come la vita.

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Mekong Hotel è un’opera evanescente, inafferrabile e atemporale, nonché la più ermetica ed astrusa di Apichatpong Weerasethakul. È un film stregante. Il suo lavoro più etereo e, soprattutto, liminale; quello che più degli altri ritrae la soglia che delimita due mondi differenti ma imprescindibili l’uno dall’altro, ovvero quello dei “defunti” e quello dei “vivi”. Una pellicola che – lo stesso discorso vale per i suoi protagonisti – rappresenta la metempsicosi della memoria, e Joe è l’ultimo che ancora dipinge rupestre in caverne di celluloide oscure, sotto la luce di tremolanti fiaccole, per far sì che le immagini vengano ricordate, e si possa ancora camminare coi fantasmi. È un Cinema primitivo, medianico, evocativo, fotosensibile, che descrive questo etereo gioco, raccontato con un linguaggio infantile, fanciullesco (inteso come puro, incontaminato), tra vivi e morti, in una dimensione atemporale.

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Voto: ★★★★★                                                                                          – Manuel Piras _

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