Top 20 Migliori Film del 2019

  • 20. Portrait of a Lady on Fire – Céline Sciamma
  • 19. Uncut Gems – Benny Safdie, Josh Safdie
  • 18. John Wick: Chapter 3 – Parabellum – Chad Stahelski
  • 17. Joker – Todd Phillips
  • 16. Libertè – Albert Serra
  • 15. Bacurau – Kleber Mendonça Filho, Juliano Dornelles
  • 14. The Halt – Lav Diaz
  • 13. Glass – M. Night Shyamalan
  • 12. A Rainy Day in New York – Woody Allen
  • 11. Beanpole – Kantemir Balagov

10. Beyond the Dream – Kiwi Chow

Kiwi Chow da vita una splendida romance riflettendo sulla relazione che si instaura tra due anime tormentate, una affetta da un disturbo mentale e l’altra segnata da profonde cicatrici interiori, che perseguono un’amore che possa andare oltre la dimensione illusoria del sogno.

9. Vitalina Varela – Pedro Costa

Cinque anni dopo Cavalo Dinheiro Pedro Costa continua la sua riflessione radicale attorno alla comunità capoverdiana di Fontainhas, piccolo e povero quartiere di Lisbona, per mostrare il lungo cordoglio di Vitalina Varela, tornata in Portogallo per salutare il defunto marito Joaquin.

8. Midsommar – Ari Aster

Lasciando l’oscurità di Hereditary, Ari Aster si sposta in una piccola comunità nella Svezia più bucolica, perversa da una perenne luce radiosa, durante i giorni della celebrazione psicotropica di un inquietante festival folkloristico.

7. Zombi Child – Bertrand Bonello

Abbandonando ogni cliché del genere, Bonello conduce una interessante riflessione politica attraverso una dissertazione teorica del voodoo e della zombificazione, che unisce storie ed epoche lontane, Haiti del 1962 e l’odierna Parigi.

6. Parasite – Bong Joon-ho

Boong Joon-ho, attraverso una vicenda alquanto grottesca, mostra la deflagrazione dell’animo umano dovuta ad una totale assenza di principi e sentimenti comuni anche nella moderna e sviluppata Corea del Sud, in cui la sopravvivenza di uno comporta l’annientamento dell’altro.

5. The Lighthouse – Robert Eggers

Tra i migliori horror degli ultimi anni, il film è una lenta discesa allucinogena in una spirale di pazzia e delirio tra paranoia e tensione.

4. Luminous Void: Docudrama – Rouzbeh Rashidi

Definito come un docudrama, il film di Rashidi è una splendida sperimentazione cinematografica in cui la figura del regista, il demiurgo dell’opera, e il mezzo attraverso cui egli comunica si fondono in un tripudio di immagini e suoni, che manifestano le immense potenzialità del mezzo filmico in una danza cosmica destinata a perdurare nello sconfinato palcoscenico che è il cinema.

3. White Noise – Antoine d’Agata

La summa dei due precedenti lavori del fotografo/regista (Aka Ana e Atlas) White Noise è un’opera di quattro ore che esplora l’interiorità di donne segnate da dolori e violenze, in giro per tutto il mondo, attraverso l’illustrazione di corpi che si abbandonano a monologhi infiniti.

2. Once Upon a Time in… Hollywood – Quentin Tarantino

L’ultimo film della c.d. Trilogia del revisionismo storico, Once Upon a Time in Hollywood è anche probabilmente l’opera più matura di Tarantino, in cui la vicenda narrata diviene un mero pretesto per un meraviglioso viaggio metacinematografico volto ad esplorare l’essenza del cinema come lo concepisce l’autore.

1. Cemetery – Carlos Casas

Carlos Casas dà vita ad un’opera sensoriale di incredibile potenza che, attraverso un’esplorazione visiva e sonora che culmina in una perfetta simbiosi tra immagine e suono, oltrepassa i confini dell’esperienza cinematografica. Cemetery

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Heremias (Book 1: The Legend of the Lizard Princess)

Heremias (Book 1: The Legend of the Lizard Princess) (2006) – Lav Diaz

Con le sue opere Lav Diaz lancia una sfida allo spettatore, a cui viene richiesto uno sforzo notevole per sostenere la loro visione che potrebbe risultare eccessivamente pesante, sia per via della loro inconsueta lunghezza (mediamente toccano le 6 ore), sia per via di uno stile radicale ed estremo, consistente nell’uso del bianco e nero, rifiuto di ogni tipo di effetto speciale e per le tematiche affrontate, sempre attinenti alla realtà e che spesso assumono la forma di una denuncia sociale e politica.

Il cineasta filippino non cerca di manipolare il tempo e lo spazio, ma conciliarli in modo che essi si manifestino come reali e veri e non solo delle componenti secondarie rispetto ai personaggi, in quanto elementi che più di ogni altro esprimono al meglio lo scorrere della vita, nella sua essenza naturale. Il suo è infatti un cinema improntato alla riflessione, che si serve di lunghissime inquadrature a macchina fissa come strumento imprescindibile tramite il quale catturare la realtà e mettere in comunicazione lo spettatore con i personaggi. Spesso quando i personaggi di Diaz entrano in una inquadratura, la ripresa perdura fintanto che questi non esce da essa, in modo da concedere allo spettatore tutto il tempo necessario per assorbire e vivere l’azione a cui assiste. Nel fare ciò Lav Diaz si affida esclusivamente alla sincerità delle immagini, rinunciando al comparto sonoro, l’unica musica percepibile è quella evocativa ed irrinunciabile della natura e quella costituita dalla voce umana.

Heremias è un film dalla durata di ben 9 ore, che potrebbero apparire un ostacolo insormontabile, ma essa è una componente essenziale senza la quale l’opera (e in generale il cinema di Diaz) non avrebbe la stessa forza espressiva. Quello del maestro filippino è infatti un cinema dedito alla contemplazione, che fa della dilatazione dei tempi un requisito fondante affinché lo spettatore sia chiamato a osservare e a partecipare attivamente alla sequela di immagini interrogandosi e confrontandosi con esse per ritrovarsi all’interno di tali immagini. Heremias è un’opera profondamente umana, come d’altronde tutto il cinema di Diaz, in cui la natura (dis)umana viene snocciolata, svelata in tutta la sua malvagità ed indifferenza. Una catastrofe sotto forma di un tornando sta per incombere sulle filippine, tutti si allontano alla ricerca di luoghi più sicuri. È una fuga, dunque ciò che si vede nelle prime immagini, in cui alcuni carri trainati da buoi lentamente percorrono una strada asfaltata. Tuttavia mentre i compagni fuggono da questa calamità naturale, Heremias sembra fuggire invece da qualcos’altro, forse dagli uomini stessi (?). Infatti quest’ultimo prendendo la sua mucca e il carro, solitario, si allontana afflitto da una preoccupazione ben più grave del tornando: il male che si annida nell’ animo degli uomini.

Da solo, il protagonista vaga senza meta. Attraverso lunghissime inquadrature a macchina fissa assistiamo al viaggio malinconico, inqueto e silenzioso di Heremias, parla solo la natura: scroscio della pioggia, fragore dei tuoni e il lamento assordante del vento. Il peregrinare di Heremias viene interrotto solo dal furto dei suoi unici possedimenti, ovvero della mucca e del carro, a seguito della fiducia che egli aveva concesso ad alcuni uomini con cui aveva condiviso un rifugio, durante una notte di tempesta, in una vecchia casa abbondonata. Da qui in poi Heremias sarà testimone di un’escalation di avvenimenti nefasti che manifestano in tutta la loro sconvolgente natura quel male da cui stava fuggendo. La polizia si rivela corrotta, avida, insensibile, disposta a compiere il proprio lavoro solo dietro a pagamento. Anche il custode della fede, un prete, si rivela tale, non disposto ad ascoltare le suppliche di un fedele per timore di conseguenze terrene. Diaz qui non si risparmia dal fare una esplicita denuncia al governo del suo paese per la triste sorte a cui sono destinate le filippine: oltre alle calamità naturali che con frequenza si abbattano su di esse, a devastare tali terre e la popolazione che vi risiede è prima di tutto il governo. Questo si concretizza per la sua totale assenza e distanza dai propri cittadini, forse troppo occupato ad arricchirsi e ad arricchire pochi per prendersi cura della povera gente oppressa. Lo stesso ufficiale di polizia a cui si rivolge Heremias confessa che là non c’è alcun governo, alcuna legge, e che sono i soldi a fare giustizia.

Il seme del male è germogliato anche nell’animo dei più giovani. N’è riprova la straordinaria sequenza realizzata con un lunghissimo e frenetico piano sequenza dalla durata di quasi un’ora: una banda di adolescenti arriva nella casa abbandonata, non lontano dal quale si era posizionato Heremias nel tentativo di trovare i responsabili del furto. Questi consumano droghe, si ubriacano, compiendo atti vandalici di ogni tipo e bestemmiano e imprecano contro i propri genitori e il proprio paese artefici della loro condizione. Tutto con il sottofondo di una musica caotica, disordinata e frenetica come gli scapestrati che la ascoltano. Noi siamo testimoni attraverso gli occhi di Heremias, nascosto dietro la boscaglia, di questa “celebrazione” simile al rito delle baccanti che in preda alla frenesia estatica e invasate da Dioniso si fanno consumare dal proprio delirio compiendo azioni violente e sanguinarie. Noi diventiamo tutt’uno con Heremias e impassibili assistiamo alla distruzione di una generazione che si manifesta e si esprime solo attraverso violenza, rabbia e odio. Ciò realizza la nullificazione totale dell’uomo, un annientamento spirituale che viene poi evidenziato dal delitto di cui si vogliono macchiare questi: violentare e poi uccidere una ragazza che aveva rifiutato uno di loro. La risoluzione con cui pianificano tale atto disumano è sconvolgente, essi non sono minimante sfiorati da alcun dubbio, da alcuna incertezza interiore, sembra che il male sia radicato in essi e famelica voglia nutrirsi della vita di quella povera ragazza.

Heremias si rivolge nuovamente alla polizia, al prete, ma al pari della sorte a cui toccò al suo omonimo biblico il profeta Geremia, che, annunciatore di un presagio nefasto ritenuto pericoloso fu allontanato e minacciato, allo stesso modo gli avvertimenti di Heremias sono inascoltati e per la sua insistenza viene percosso dal poliziotto corrotto perché tra gli autori del crimine denunciato c’è anche il figlio di un’influente figura politica locale. Una vita è ridotta al nulla, perdendo di ogni significato, al pari della giustizia ormai morta, malleabile al servizio di un sistema corrotto che intensifica sempre più la propria morsa attraverso paura e omertà. Questa è la realtà che si fa sempre più preponderante e alla quale si tende a riferire con l’espressione “normalità”, abituandosi ad essa. Quella fornita da Diaz è un visone fortemente pessimistica del mondo odierno, in cui l’uomo appare non tanto differente da una qualsiasi bestia in grado di rispondere solo ai propri istinti primitivi e bestiali, in cui la pietas per il prossimo è un sentimento del tutto estraneo, sconfitto, annientato.

Per Heremias non resta che rivolgersi direttamente a Dio: così mettendo completamente a nudo la propria anima rivolge una disperata supplica a Dio affinché salvi la ragazza anche in cambio della sua stessa vita. Quello di Heremias è un urlo di rassegnazione, di sconforto e di sfiducia nella natura umana, che emerge in tutta la sua spietatezza nelle ultime immagini del film che riprendono Heremias percorrere una stradina fino a scomparire.

Heremias è un’opere dall’estetica quasi amatoriale, più affine a quello del documentario che a quella della fiction, molto vicino al successivo “Death in the land of encantos”, con il quale condivide anche la riflessione fortemente politica che lo caratterizza. Questi due film, che costituiscono la summa politica di Diaz, appaiono infatti imprescindibili l’uno dall’altro, in quanto uno prosegue la riflessione condotta dall’altro e inoltre il primo è ambientato in momento antecedente al tifone, mentre il secondo appena dopo: sono dunque parti della medesima catastrofe, che si concretizza come una catastrofe dell’umanità più che della natura. Infatti ciò che è visibile più di ogni altra cosa, in entrambe le opere, non è il tornando o le conseguenze di esso, ma le ferite causate dall’uomo con le proprie mani alla propria terra e specie.

Voto: ★★★★★

Cemetery

Cemetery (2019) – Carlos Casas

“Dall’inizio dei tempi, molte storie e leggende sono state raccontate sul mito del cimitero degli elefanti. Una montagna invalicabile e una giungla di grande possenza condurrebbe gli avventurieri dalle caverne ai fiumi sotterranei dove tutti gli elefanti vengono a morire un giorno. Alimentata da quelle favole, la sete dei bracconieri per il loro prezioso avorio non si è mai estinta. Tra i numerosi disastri di cui sono responsabili, sono riusciti a uccidere tutti gli elefanti tranne uno. Mentre la fine del loro mondo si avvicina, essi seguono le orme dell’unico elefante che può ancora guidarli in quel luogo segreto che nessuno ha mai visto se non nei sogni”.

Traendo ispirazione da questo mito, Carlos Casas dà vita ad un’opera sensoriale di incredibile potenza che, attraverso un’esplorazione visiva e sonora che culmina in una perfetta simbiosi tra immagine e suono, oltrepassa i confini dell’esperienza cinematografica.
Il regista spagnolo essendo un filmmaker e artista visivo, realizza un’opera tra il film documentario, cinema sperimentale e arte visiva-sonora, in cui l’attenzione estatica preponderante favorisce quel viaggio che ognuno può intraprendere dentro se stesso mentre guarda delle immagini e che, usando le stesse parole del regista, conduce in una dimensione al di fuori dello spazio contingente che porta alla creazione di uno stato mentale nell’esperienza audiovisiva, verso una sorta di illuminazione, tramite cui si giunge a quella scintilla originaria in grado di accendere l’immaginazione.

Il film è suddiviso in quattro capitoli.
Il primo è un lungo e lento segmento in cui i due protagonisti, l’elefante e il suo mahout, in mezzo alla foresta impervia dello Sri Lanka, si apprestano a compiere tutti i riti necessari ad intraprendere il loro ultimo viaggio verso il cimitero degli elefanti. Progressivamente si assiste alla scomparsa del grande pachiderma che lentamente diviene tutt’uno con la natura circostante: il suo occhio, la sua pelle, con le sfumature di grigio e verde, si (con)fondono con la corteccia degli enormi alberi della foresta pluviale, finché si può soltanto percepire la presenza dell’animale, che ormai è divenuto sempre più parte integrante della natura.
Il secondo capitolo segue invece il gruppo di bracconieri che è alle calcagna dei due e i cui membri, uno dopo l’altro, periscono misteriosamente, in quanto la natura non è lo sfondo passivo dell’azione umana, ma un’entità sensibile e pensate, le cui percezioni vengono trasmesse dalla materia filmica attraverso la commistione di elementi visivi e sonori.
Il terzo capitolo descrive il compimento del viaggio, l’arrivo nel mitico cimitero degli elefanti, che si manifesta attraverso una sorta di affresco in cui una moltitudine di immagini e suoni si sovrappongono in un’oscurità di trip allucinatori dai richiami primordiali. Qui ogni cosa si annulla, persino Il concetto di tempo perde ogni significato: il presente e il futuro si fondono divenendo un unicum che è al contempo presente e futuro.
L’ultimo capitolo costituisce invece l’epilogo che conduce ad una sconfinata natura permea di nova luce, sintomo di un azzeramento che è solo il punto di partenza di un nuovo ciclo, di un imperituro eterno ritorno.

Le quattro parti in cui si articola l’opera divengono così le tappe imprescindibili di un viaggio iniziatico, nonché di un’esperienza visiva e sonora straordinaria, quasi mistica, verso una comprensione cosmologica che trascende l’intelletto umano dello spazio e del tempo. Il cimitero degli elefanti diviene la fine stessa del mondo, un’immersione nell’oscurità assoluta, che però è solo una condizione transitoria, perché presto deve concedersi alla luce, ad un nuovo inizio: la morte allora non è altro che una forma di una possibile (ri)nascita.

Voto: ★★★★★

Hotel by the River

Hotel by the River (2018) – Hong Sang-soo

Girato in un austero bianco e nero e traboccante di una malinconia crepuscolare, Hotel by the River è l’opera che più rappresenta il culmine artistico ormai raggiunto dal prolifico autore coreano, che riflettendo come mai sulla vita e soprattutto sulla morte, realizza probabilmente uno dei film più belli degli ultimi anni.

È inverno. Un anziano poeta, che sente stranamente avvicinare la propria morte, soggiorna in un remoto hotel immerso nella neve e collocato lungo il fiume Han. I suoi due figli, con i quali ha perso da anni i contatti, giungono all’hotel a fargli visita. A causa tuttavia di un misterioso fenomeno l’incontro tra i congiunti stenta a verificarsi, nonostante le ridotte dimensioni dell’hotel: padre e figli si perdono a vicenda, si sfiorano solo e quando finalmente si incontrano si perdono di nuovo. Il poeta affronta i figli per tentare di recuperare, almeno prima della propria dipartita, quel minimo di rapporto famigliare che lega un padre ai figli, nonostante sembri però ormai irrimediabilmente compromesso dalla reciproca distanza. I figli infatti non riescono neppure a confidare al padre la loro situazione familiare altrettanto fallimentare: uno ha divorziato e l’altro invece non riesce proprio ad avere delle relazioni con le donne a causa di una strana fobia legata probabilmente ad una madre troppo opprimente.
Nell’hotel soggiorna anche una giovane donna, che dopo essere stata tradita dall’uomo con cui viveva, cerca di riprendersi con il sostegno morale di un’amica. Le due amiche, che trascorrono il più del tempo abbracciate, rannicchiate a letto, alternando brevi passeggiate nella sconfinata distesa di neve, a differenza degli uomini, si confidano genuinamente i loro tormenti d’amore, la meschinità dell’uomo e la tristezza che le pervade.
I due universi, quello femminile delle due amiche e quello maschile del poeta e dei suoi figli, raffigurati dal regista come distanti ed opposti, entrano fugacemente in rapporto tra di loro solo attraverso la figura dell’aziono poeta che, incantato dalla grazia e dalla bellezza delle due donne, viene ispirato dopo tanto tempo a comporre nuovi versi.

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Hong Sang-soo con quest’ultima opera si conferma un maestro nel trattare con semplicità tematiche universali come l’amore, la vita e la morte, attraverso il suo inconfondibile stile minimalista in cui fondendo il banale, le minuzie della quotidianità con il cosmico, cerca di rispondere o meglio riflettere su quelle domande senza età che caratterizzano il trascorrere del tempo dell’uomo nel mondo. Un tempo, quello della vita umana, destinato inesorabilmente a terminare così come rappresentato dall’hotel e dal fiume Han, entrambi simboli di transitorietà, uno fisso, l’altro scorrevole.

Voto: ★★★★☆

IN QUARANTENA CON IL CINEMA


Il COVID-19, purtroppo, ci obbliga a restare rintanti nelle nostre case. Se non sapete come spendere il vostro tempo, ecco alcuni film che potete recuperare in questa particolare situazione da reclusi:

10. Love Exposure (2008) – Sion Sono                                                                              3h 57m

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L’amore secondo Sion Sono. Un’opera folle, dissacrante, ma soprattutto romantica, che nonostante la durata risulta facilmente fruibile.

9. An Elephant Sitting Still (2018) – Hu Bo                                                                       3h 54m

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Il lasciato del regista Hu Bo, che al termine del montaggio si è tolto la vita, è un’opera che riflette probabilmente la visione del mondo del suo autore: un modo spietato, crudele e privo di alcuna compassione per individui come i quattro protagonisti che, ciascuno segnato dalla vita per un motivo diverso, sembrano ancora legati a questo mondo dal solo desiderio di vedere, a Manzhouli, un elefante che se ne sta tutto il giorno immobile, seduto, come se il resto del mondo non esistesse.

8. ‘Til Madness Do Us Part  (2008) – Wang Bing                                                              3h 48m

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Wang Bing mostra la miserabile quotidianità dei pazienti reclusi in un manicomio dello Yunnan (Cina). Non tutti però sono confinati in questo luogo per disturbi mentali, ma anche per le proprie convizioni politiche.

7. Nymphomaniac (2013) – Lars von Trier                                                                       5h 30m

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L’ultimo capitolo della c.d. Trilogia della depressione (insieme ad Antichrist e a Melancholia), Nymphomaniac è forse anche l’opera più raprresentativa di tutto il cinema del regista. Una dipendenza, quella sessuale, diventa per il cineasta danese, mediante una narrazione sublime, il preteso per trattare in modo penetarante e definitivo tutti quei temi che hanno caratterizzato la sua filmografia: depressione, autodsitruzione, solitudine, disagio esistenziale, identità di genere e crudeltà della natura.

6. Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) – Chantal Akerman                                                                                                                                                        3 h 45m

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Descritto dal New York Times come “il primo capolavoro femminile nella storia del cinema”, Jeanne Dielman è tra le opere più affascinanti e disturbanti nello stesso tempo che si possa mai vedere.

5. Near Death (1989) – Frederick Wiseman                                                                     5h 46m

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Monumentale documentario di quasi 6 ore, Near Death descrive la quotidianità all’interno del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Beth Israel di Boston: come le persone affrontano la morte e, più in particolare, le complesse relazioni tra pazienti, famiglie, medici, infermieri, personale ospedaliero e tutti quei soggetti coinvolti nelle decisioni circa l’opportunità o meno di adottare un determinato trattamento ai pazienti e in quelle critiche sulla vita o sulla morte.

4. Century of Birthing (2011) – Lav Diaz                                                                                    6h

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Un’opera sublime che in una matrioska metacinematografica narra la storia di un regista in crisi, di una  ex-suora in cerca di esperienze mai provate e di una setta di fanatici religiosi.

3. As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) – Jonas Mekas                                                                                                                                         4h 48m

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Un’opera artistica irripetibile che rispecchia l’autentico significato della vitaun bellissimo atto di amore nei confronti del cinema e della vita stessa. Continua

2. Satantango (1994) – Béla Tarr                                                                                        7h 30m

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Uno dei capolavori assoluti di Tarr, Satantango è una lenta danza, lunga sette ore e mezza, in una realtà apocalittica senza tempo.

1.  Filmografia Andrej Tarkovskij

Se non avete ancora visto i capolavori del maestro russo, è giunto il momento di farlo.

“L’artista crea istintivamente, egli non sa perché proprio in quel momento fa una cosa oppure un’altra, scrive proprio di questo, dipinge proprio questo. Soltanto dopo egli comincia ad analizzare, a trovare spiegazioni, a filosofeggiare e giunge alle risposte che non hanno nulla in comune con l’istinto, col bisogno istintivo di fare, creare, esprimere sé stesso. In un certo senso la creazione è rappresentazione dell’essenza spirituale nell’uomo ed è la contrapposizione all’essenza fisica; la creazione è in un certo senso la dimostrazione dell’esistenza di questa essenza spirituale”.

“Il cinema è l’unica forma d’arte che – proprio perché operante all’interno del concetto e dimensione di tempo – è in grado di riprodurre l’effettiva consistenza del tempo – l’essenza della realtà – fissandolo e conservandolo per sempre”.

The Raid 2: Berandal

The Raid 2: Berandal (2014) – Gareth Evans

Opera che nasce dalle ceneri di una vecchia sceneggiatura del regista intitolata “Berandal” e mai trasposta prima in film per mancanza di fondi, The Raid 2 si è ritagliato da subito un posto tra i capisaldi dei film d’azione, tra quei film che sono inesorabilmente presi a modello e omaggiati dai film avvenire in quanto imprescindibili.

Molto diverso dal primo, che è praticamente un’ora e mezza di scene di lotta non-stop, anche se straordinarie e piene di patos, in cui tutta l’azione implacabile è tenuta insieme da una trama sottilissima, The Raid 2, che mantiene comunque tutta la brutalità del primo film, risulta essere invece un avvincente intreccio dalle atmosfere noir/crime in cui il protagonista Rama, per sgominare la mala indonesiana e la corruzione nelle forze di polizia, si trova a dover fronteggiare famiglie di criminali in guerra tra loro, un ambizioso figlio di un boss mafioso che vuole prendere il posto del vecchio padre, tradimenti e doppi giochi in un mondo tinto di rosso. È evidente come rispetto al capitolo precedente The Raid 2 sia strutturato in modo molto più complesso sia dal punto di vista narrativo che scenografico: abbandona la scena claustrofobica di un palazzo monocromatico e si allarga verso ambientazioni potenti e luminosi in cui dominano colori puri.

Gareth Evans filma con grande maestria tutte le sequenze d’azione e in modo particolare le scene di lotta con una sensibilità verso la vecchia scuola mescolata a nuove tecniche di regia, come quella espressa nello spettacolare inseguimento in auto. Infatti, ad ogni sequenza di lotta viene voglia di dire che si sta assistendo alla scena migliore mai vista in un film di questo genere. La costruzione delle sequenze finali risulta inoltre magistrale per come la tensione avanza a pari passo con i vari combattimenti in stile boss fight dei videogiochi per poi culminare definitivamente nello scontro decisivo in cucina. Questo combattimento, che il regista ha impiegato ben sei settimane a progettare e otto giorni per filmare, è semplicemente uno dei migliori, se non il migliore mai visto al cinema, per intensità, ritmo dei colpi, coreografia e tensione. Iko Uwais è ormai una garanzia con la sua Pencak Silat, la tradizionale arte marziale indonesiana.

Inoltre, sono geniali i due personaggi della “Ragazza con i martelli” e del “Ragazzo con la mazza da baseball”, che per la loro caratterizzazione chiaramente fumettistica e decisamente sopra le righe risultano impossibili da dimenticare.

Il regista Gareth Evans, con The Raid 2, ha realizzato qualcosa di straordinario: ha raggiunto un nuovo livello del cinema d’azione e soprattutto onorato e riportato alla ribalta con grande bravura uno dei generi cinematografici che più mi stanno a cuore, quello delle arti marziali. Film imperdibile e obbligatorio per gli amanti del genere e non.

Voto: ★★★★☆

TOP 20 MIGLIORI FILM DEL 2018

  • 20. Ready Player One – Steven Spielberg
  • 19. Unsane – Steven Soderbergh
  • 18. The Trial – Sergei Loznitsa
  • 17. Capri-Revolution – Mario Martone
  • 16. The Man Who Killed Don Quixote – Terry Gilliam
  • 15. Your Face – Tsai Ming-liang
  • 14. Burning – Lee Chang-dong
  • 13. Zan – Shin’ya Tsukamoto
  • 12. Mandy – Panos Cosmatos
  • 11. Season of the Devil – Lav Diaz

TOP 10 + 1

10. Spider-Man: Into the Spider-Verse – Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman ex aequo Nuestro Tiempo – Carlos Reygadas

Spider-Man: Into the Spider-Verse

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Manifesto delle incredibili possibilità dell’animazione contemporanea, nonché probabilmente il miglior film dell’amichevole Spider-Man di quartiere sul grande schermo e di ogni sorta di cinecomics.

Nuestro Tiempo – Carlos Reygadas

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Dopo “Post tenebras lux” ancora tenebra(s) in questa sperimentazione (meta) cinematografica che è “Nuestro tiempo”, in cui gli alter ego di Reygadas e sua moglie si muovono in una dimensione di precaria intimità coniugale nel tentativo di preservare un’amore ormai consumato dal (loro) tempo. Ennesimo grande film del cineasta messicano nonostante si conceda spesso dei momenti di autocompiacimento.

9. Shoplifters – Hirokazu Kore-da

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Palma d’oro al festival di Cannes, shoplifter racconta con grande sincerità e intelligenza la quotidianità di una famiglia di “miserabili” che tenta di sbarcare il lunario come può con taccheggi e furtarelli, ma all’insegna dell’amore reciproco e dell’importanza della famiglia come legame etico e non di sangue.

8. Roma – Alfonso Cuarón

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Indubbiamente il culmine della carriera cinematografica di Cuaròn, Roma è un meraviglioso ritratto intimo e toccante di una famiglia borghese messicana alla deriva nei primi anni settanta, dal sapore fortemente autobiografico

7. Lazaro Felice – Alice Rohrwacher

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Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, Lazzaro felice è un’opera di rara bellezza che illustra la bontà umana in un mondo inumano… continua

6. An Elephant Sitting Still – Hu Bo

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Il lasciato del regista Hu bo, che al termine del montaggio si è tolto la vita, è un’opera che riflette probabilmente la visione del mondo del suo autore: un modo spietato, crudele e privo di alcuna compassione per individui come i quattro protagonisti che, ciascuno segnato dalla vita per un motivo diverso, sembrano ancora legati a questo mondo dal solo desiderio di vedere, a Manzhouli, un elefante che se ne sta tutto il giorno immobile, seduto, come se il resto del mondo non esistesse.

5. Phantom Islands – Rouzbeh Rashidi

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Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità…continua

4. Suspiria – Luca Guadagnino

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Guadagnino decostruisce magnificamente l’originale, concependo di fatto un nuovo film, più vicino per atmosfera e contenuti socio-politico a Fassbinder e Zulawski. Tale operazione filmica paga, perché questo Suspiria è un’opera sorprendente che nella fredda e grigia Berlino divisa del 1977, in sei atti, inscena attraverso delle superbe coreografie di danza e di morte il dispiegarsi del male sotto le sembianze di una candida ragazza americana che, da figlia alla ricerca di una maternità idolatrata, si erge a Mater Suspiriorum.

3. The House That Jack Built – Lars von Trier

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Lars von Trier torna a Cannes probabilmente con la sua opera più tremenda e scioccante, ma anche la più personale. Infatti non è difficile riconoscere nel protagonista Jack, un serial killer sociopatico costantemente in bilico tra la follia e rari momenti di lucidità, che concepisce l’omicidio come atto creativo o meglio opera d’arte, lo stesso Lars, autore da sempre tormentato e al centro di continue critiche, anche se in realtà non fa altro che perseguire l’arte attraverso il cinema. The House That Jack Built segna decisamente un ritorno in grande stile di Lars, reso ancora più sontuoso dal meraviglioso finale surreale del film.

2. Hotel by the River – Hong Sang-soo

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Hong Sang-soo realizza un’opera di rara bellezza, poetica e annichilente allo stesso tempo, riflettendo come non mai sulla morte, o meglio sul sentimento della morte di cui è portatore l’anziano poeta Younghwan e sul distacco dai legami familiari (tra padre e figli) e d’amore, come quello della giovane donna tradita che si crogiola con la comprensione di un’amica, nel suo dolore. Tutto viene rappresentato, con un magnifico bianco e nero, nei pressi di un solitario hotel lungo il fiume Han, in un’atmosfera di sospensione temporale evocata da una sconfinata distesa innevata. Indubbiamente il film più bello del 2018.

1. Le livre d’image – Jean-Luc Godard

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L’ultima opera dell’intramontabile regista francese è un grande film-saggio sul nostro mondo descritto attraverso l’immagine libera dalla parola, cioè con un immagine non più in rapporto dialettico con la parola e il suo significato. Godard ri-mescola immagini tratte da altri film a digitalizzazioni di altre con effetti di straniamento provocato dall’uso di musica classica fermata bruscamente, di scritte sovraimpresse, dissolvenze in nero e commenti in voice-over, affermando così l’arte cinematografica come installazione visiva più che come narrazione.

+ 1. The Other Side Of The Wind – Orson Welles

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Venezia 75

75ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica (2018, Venezia)

Resoconto delle mie visioni a Venezia 75.

Nuestro tiempo (2018) – Carlos Reygadas
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Dopo “Post tenebras lux” ancora tenebra(s) in questa sperimentazione (meta) cinematografica che è “Nuestro tiempo”, in cui gli alter ego di Reygadas e sua moglie si muovono in una dimensione di precaria intimità coniugale nel tentativo di preservare un’amore ormai consumato dal (loro) tempo. Ennesimo grande film del cineasta messicano nonostante si conceda spesso dei momenti di autocompiacimento.

                                                                                                                                       Voto: ★★★★☆

Ying (Shadow) (2018) – Zhang Yimou

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Ok, ci siamo giocati definitivamente anche il buon vecchio Zhang Yimou. Davvero una grande stronzata questo suo ultimo film, che non riesce a salvarsi neppure con le consuete coreografie, qui scialbe e prive di mordente.

                                                                                                                                        Voto: ★☆☆☆☆

Capri-Revolution (2018) – Mario Martone

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Martone (mi) sorprende con un’opera deliziosa in cui indaga il rapporto tra uomo e la natura attraverso immagini evocative e di grande suggestione visiva, tutto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale in un clima di dibattito politico e ideologico sullo sfondo.

                                                                                                                                       Voto: ★★★☆☆

Process (2018) – Sergei Loznitsa

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Loznitsa grazie a materiali di archivio ricostruisce uno dei primi processi falsi architettati da Stalin e fa dello spettatore, proiettandolo direttamente nell’aula del tribunale, nell’URSS del 1930, un testimone di quel regime di terrore instaurato da Stalin.

“Esempio unico di un documentario in cui si vedono 24 fotogrammi di bugie al secondo”.

                                                                                                                                Voto: ★★★★☆ (3.5)

Zan (Killing) (2018) – Shinya Tsukamoto

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Tsukamoto presenta un samurai movie ma sovvertendone i suoi canoni: quello che all’inizio pare essere un film, passatemi il termine, alla “I sette Samurai” in cui un gruppetto di guerrieri (ronin) se la deve vedere contro ondate di nemici si rivela invece una profonda riflessione sull’atto di uccidere. Realizzato con soli quattro personaggi, una capanna e l’ambiente circostante per lo più foresta, Zan è un’altra opera imperdibile del maestro giapponese.

                                                                                                                                        Voto: ★★★☆☆

Your Face (2018) – Tsai Ming-liang

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Tsai ming liang prosegue nella sua evoluzione cinematografica realizzando un’opera estatica di grande contemplazione visiva, in cui volti incontrati per le vie di Taipei narrano le loro storie:

“C’è una luce, c’è una storia.
Il tuo volto mi parla del trascorrere del tempo e di luoghi che hai attraversato.
Nei tuoi occhi, un velo di confusione e di tristezza.
C’è una luce, c’è una storia.
Il tuo volto mi parla dell’amore e dei luoghi in cui si nasconde.
Nei tuoi occhi, un riflesso di luce, e il buio.”

                                                                                                                                        Voto: ★★★☆☆

Aquarela (2018) – Victor Kossakovsky

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Documentario filmato a 96 fotogrammi al secondo, in cui l’acqua viene raffigurata in tutte le sue forme: da quelle più belle e affascinanti del lago Baikal completamente ghiacciato in Russia e della cascata Salto Angel in Venezuela a quelle più devastanti dell’uragano Irma in Florida fino alle possenti onde dell’oceano. Opera visivamente spettacolare, che però non lascia altro.

                                                                                                                                        Voto: ★★☆☆☆

Lazzaro felice

Lazzaro felice (2018) – Alice Rohrwacher

Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, Lazzaro felice è un’opera di rara bellezza che illustra la bontà umana in un mondo inumano. Quella di Lazzaro, un giovane contadino puro di cuore, sempre disponibile verso gli altri che vive insieme ad una cinquantina di contadini (tra cui bambini e anziani) a Inviolata, un piccolo villaggio rurale in una località italiana non precisata, dove il tempo si è fermato: lavorano tutti come mezzadri per la marchesa Alfonsina de Luna. Essi sono vittime de “il grande inganno”, mezzadri quando la mezzadria è stata già bandita. Lazzaro per la sua estrema disponibilità e purezza d’animo è l’ultimo della catena degli sfruttati, è sfruttato dagli sfruttati. Quando a seguito di uno scherzo orchestrato da Tancredi, figlio della marchesa, l’inganno è svelato e i contadini condotti dai carabinieri in città, un redivivo Lazzaro attraversa la barriera del tempo per giungere in una nuova realtà che però non pare tanto diversa da quella di Inviolata, dominata da malizia e inganno.

L’opera della Rohrwacher, seppur mantenendo una sua autonomia intrinseca, risente certamente dell’influenza poetica di grandi autori come Olmi e dei fratelli Taviani, entrambi (Paolo) scomparsi di recente, soprattutto nella prima parte ambientata in campagna, mentre concettualmente si rifà a Dostoevskij de “L’idiota” e a San Francesco. Lazzaro, infatti, come il principe Myškin, protagonista del romanzo dello scrittore russo, viene definito un’idiota per la sua incredibile bontà e misericordia nel suo senso più etimologico. Un incompreso sia in campagna che in città dove la libertà ritrovata dei contadini si estrinseca in ipocrisia e falsità. Lazzaro è un uomo impreparato alla vita, di un’ingenuità puerile, di una semplicità quasi disumana e al limite dell’irritante e la cui logica, dettata solo dal cuore, appare, in un mondo dove domina il più astuto, il più calcolatore e il più cinico, non in grado di sopravvivere. In tale contesto un uomo buono non è altro che un agnello sacrificale.

La Rohrwacher con Lazzaro felice mette in scena una prodigiosa fiaba che riesuma la bellezza, i sentimenti più puri e semplici (incarnati da Lazzaro) che, attraverso un costrutto tipico di quello che viene definito realismo magico, manifestano l’abbrutimento in cui pare irrimediabilmente caduto il nostro mondo. Lazzaro felice è un’opera che con la sua sconvolgente bellezza e spontaneità penetra e sciocca l’animo dello spettatore, che difficilmente potrà riprendersi da una tale miracolosa visione. Un film di cui il cinema italiano aveva estremamente bisogno, ma al quale forse non tutti sono ancora pronti, perché non tutti sono capaci di riconoscere la bellezza.

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Voto: ★★★★☆

Silent Mist

Silent Mist (2017) –  Zhang Miaoyan

Nell’oscurità della notte, una misteriosa coltre di nebbia cala su un tranquillo paesino sul lungofiume della Cina. Un vecchio (un musicista errante?) arriva nel villaggio e vaga per i suoi stretti vicoli. Ombre tetre si innalzano sui muri delle vie. Sono il presagio di avvenimenti sinistri. Infatti una figura famelica si muove silenziosamente per i cunicoli del villaggio alla ricerca della sua prima preda: una studentessa.

Silent Mist è liberamente basato su eventi realmente accaduti in un piccolo villaggio della Cina: una serie di stupri di giovani donne, il cui colpevole non fu mai identificato. Un plot perfetto per un thriller/giallo, i cui elementi in parte permangono, si consolida invece in un dramma sociale, che fornisce un ritratto attuale della Cina extraurbana in trasformazione alle prese con la sempre più crescente influenza dell’avidità, del potere e della corruzione. Dove tutti vedono tutto ma nessuno dice nulla: la malizia serpeggia tra i vicini, le donne violate segnate dalla vergogna sono nullificate e lasciate a se stesse, a lottare, da sole, con il trauma della violenza e dello stigma sociale. In un film in cui sostanzialmente domina il silenzio (del villaggio innanzitutto) Zahng manifesta splendidamente il malessere interiore delle vittime attraverso sequenze estatiche in cui esse vagano per le strette vie del paesino in uno stato quasi catatonico, sole con la loro disperazione.

In un simile contesto, in cui gli abitanti guardano dall’altra parte, il misterioso stupratore che già trova il favore delle tenebre e della nebbia si trova in condizione perfetta per agire indisturbato, di farla franca e prendere ciò che vuole, o meglio chiunque voglia. Allo stesso modo il grasso uomo d’affari, l’unico che potrebbe fare qualcosa per la comunità, approfitta invece della situazione per accrescere la propria influenza e il proprio potere sugli abitanti del tutto incapaci di far fronte a tali eventi nefasti per paura e incertezza. Citando le parole del regista, sembra che la libertà appena trovata sia utilizzata prevalentemente per il guadagno individuale e gli stupri in Silent Mist costituiscono un simbolo di questa “libertà” individuale acquisita a costo dell’altro innocente.

Dal punto di vista tecnico Silent Mist è un’opera eccelsa, visivamente splendida, che sfoggia le incredibili capacità registiche dell’autore, fatta di lunghi piani sequenza, uso di stili e lenti vari come il POV e il grandangolo che creano grande atmosfera e suspense.

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Voto: ★★★★☆