Silent Mist

Silent Mist (2017) –  Zhang Miaoyan

Nell’oscurità della notte, una misteriosa coltre di nebbia cala su un tranquillo paesino sul lungofiume della Cina. Un vecchio (un musicista errante?) arriva nel villaggio e vaga per i suoi stretti vicoli. Ombre tetre si innalzano sui muri delle vie. Sono il presagio di avvenimenti sinistri. Infatti una figura famelica si muove silenziosamente per i cunicoli del villaggio alla ricerca della sua prima preda: una studentessa.

Silent Mist è liberamente basato su eventi realmente accaduti in un piccolo villaggio della Cina: una serie di stupri di giovani donne, il cui colpevole non fu mai identificato. Un plot perfetto per un thriller/giallo, i cui elementi in parte permangono, si consolida invece in un dramma sociale, che fornisce un ritratto attuale della Cina extraurbana in trasformazione alle prese con la sempre più crescente influenza dell’avidità, del potere e della corruzione. Dove tutti vedono tutto ma nessuno dice nulla: la malizia serpeggia tra i vicini, le donne violate segnate dalla vergogna sono nullificate e lasciate a se stesse, a lottare, da sole, con il trauma della violenza e dello stigma sociale. In un film in cui sostanzialmente domina il silenzio (del villaggio innanzitutto) Zahng manifesta splendidamente il malessere interiore delle vittime attraverso sequenze estatiche in cui esse vagano per le strette vie del paesino in uno stato quasi catatonico, sole con la loro disperazione.

In un simile contesto, in cui gli abitanti guardano dall’altra parte, il misterioso stupratore che già trova il favore delle tenebre e della nebbia si trova in condizione perfetta per agire indisturbato, di farla franca e prendere ciò che vuole, o meglio chiunque voglia. Allo stesso modo il grasso uomo d’affari, l’unico che potrebbe fare qualcosa per la comunità, approfitta invece della situazione per accrescere la propria influenza e il proprio potere sugli abitanti del tutto incapaci di far fronte a tali eventi nefasti per paura e incertezza. Citando le parole del regista, sembra che la libertà appena trovata sia utilizzata prevalentemente per il guadagno individuale e gli stupri in Silent Mist costituiscono un simbolo di questa “libertà” individuale acquisita a costo dell’altro innocente.

Dal punto di vista tecnico Silent Mist è un’opera eccelsa, visivamente splendida, che sfoggia le incredibili capacità registiche dell’autore, fatta di lunghi piani sequenza, uso di stili e lenti vari come il POV e il grandangolo che creano grande atmosfera e suspense.

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Voto: ★★★★☆

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Dyn Amo

Dyn Amo (1972) – Stephen Dwoskin

Dwoskin, a differenza dei cineasti della sua generazione come Michael Snow, non è mai stato interessato a rimuovere la figura umana dalle sue immagini per concentrasi sulle proprietà formali del medium cinematografico. Sebbene i suoi film contengano pochi dialoghi, pullulano tuttavia di persone, prevalentemente donne. La sua macchina fotografica non registra solo, ma guarda. Il suo è un cinema di sguardi in cui si verifica una interazione oculare tra i soggetti ripresi mentre si relazionano e tra questi e lo spettatore. Dwoskin, quindi, esplora il processo di questo tipo di relazioni mentre si sviluppano in  un periodo di tempo, seguendo le sensazioni di quei momenti piuttosto che affidarsi ad una narrazione ben definita.

“I was moved to considered how to turn the sense of words into images to speak with the eyes sort of, but mostly how to turn the internal process of thinking into visual representation”. – Stephen Dwoskin

Dyn Amo tra le sue opere più sensuali, ma anche la più terrificante, mostra la relazione che si instaura in uno strip club tra tre spogliarelliste e alcuni uomini, loro ammiratori. È basato su un’opera teatrale di Chris Wilkinson la cui narrativa originale viene completamente deflagrata per spostare il fulcro sulle emozioni del cast, che a quanto si legge, è anche il medesimo dell’opera teatrale. Emozioni che sono rivelate attraverso i primi e primissimi piani, tipici del cinema di Dwoskin. Essi sono  così potenti da coinvolgere in modo diretto lo spettatore, il quale è spesso impossibilitato a sottrarsi alle percezioni estreme con cui entra in contatto.

Le spogliarelliste si esibiscono una dopo l’altra sulle note prima di una musica pop e poi sul pazzesco tema martellante di Gavin Bryars. Le esibizioni sono però prive di entusiasmo, quasi meccaniche, poiché non sono pensate per essere convincenti o eccitanti. L’intento di Dwoskin, infatti, è quello di mostrare le donne per quello che sono, attrici che interpretano delle spogliarelliste, piuttosto che delle vere e proprie artiste burlesque e questo al fine di compiere una riflessione sul gioco di ruolo sessuale e sullo stereotipo: guardare dietro lo stereotipo per cercare di smascherare la maschera che le persone si portano.

La donna viene presentata come un oggetto sessuale, uno stereotipo per l’uomo voyeur, in netta contraddizione con i propri sentimenti: interpreta un ruolo e indossa una maschera cucitale addosso da altri, sebbene la disprezzi. Nel fare ciò Dwoskin non pone il focus sull’atto reale del sesso o sullo strip tease, ma sulla donna, sul suo volto e sul suo sguardo, sulla sua espressione, su come ella percepisce le proprie  azioni e le contraddizioni che ne derivano,  in modo da evidenziare la sua posizione di precarietà tra stereotipi e simboli di sfruttamento. Come dichiarato dall’autore, l’immagine convenzionale  dello strip tease è solo un mezzo attraverso il quale porre lo sguardo sulla personalità dell’individuo che recita quello stereotipo. Non ci si sofferma sugli atti dello strip tease, ma si riformula lo sguardo della donna  affinché essa possa cogliere la propria relazione con  quello che sta facendo e lo spettatore allo stesso tempo si possa inserire in tale relazione, che  non è più meramente esterna. Viene stabilita così una nuova relazione tra tutte le parti: telecamera, performer e lo spettatore,  al quale è richiesto un investimento personale, che è fondamentale affinché egli possa andare oltre l’atteso atteggiamento voyeuristico  e instaurare  invece una interazione attiva e immediata con ciò che vede.

La rappresentazione, nel finale, si evolve in un atto di efferata violenza : l’ultima ragazza viene completamente denudata, violata e stuprata. Usando le parole di Dwoskin, Dyn Amo si trasforma da uno spettacolo in una forma violenta di realtà o meglio in una (con)fusione tra ciò che è recitato e ciò che è non recitato. Un’escalation di brutalità e perversione umana che manifesta il gioco di potere sessuale, in cui la donna, inizialmente  presentata come oggetto sessuale, una forma di icona seducente con un potere iniziale, rimane alla fine  intrappolata in quella stessa icona, che non rappresenta ciò che sente nel suo profondo. Il lungo primo piano finale che mostra la donna in lacrime, fissare intensamente la telecamera come se chiedesse silenzioso aiuto allo spettatore è sintomatico della volontà di Dwoskin di insistere nell’iterazione tra lo spettatore e i personaggi ripresi in modo da spostare il film da una dimensione esterna in una interna di partecipazione attiva. Il cinema come esperienza segnante, Dyn Amo.

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Voto: ★★★★★

Possessed

Possessed (2018) – Metahaven, Rob Schröder

Presentato al 47° IFFR International Film Festival Rotterdam, Possessed è un opera di estrema attualità che esplora con occhio cinematografico la nostra realtà storica, dominata o meglio, posseduta dai social media. Un mondo in cui l’uomo volutamente decide di calare sugli occhi l’illusorio velo di maya: lo schermo di uno smartphone. Rifiutando la realtà oggettiva così come percepita dai sensi, l’uomo la osserva attraverso uno smartphone credendo di poterla cogliere nella sua essenza, quando invece aspira solamente a realizzare un suo desiderio, un sogno.

“E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge il volto dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente”. – Arthur Schopenhauer

L’insoddisfazione attanaglia le persone rendendole nevrotiche e infelici, costrette a svolgere lavori che non amano per sopravvivere in una società paralizzata da una crisi economica e politica da una parte e minacce di collassi climatici e progressivo esaurimento di risorse dall’altra. In un tale contesto i social media appaiono il canale in cui convogliare il germe dell’insoddisfazione e nascondere la realtà, appunto il velo di Maya che, avvolgendo il volto delle persone, le conduce in “un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista”: un sogno. Infatti la realtà che viene comunicata e fatta vedere attraverso i media è solo il riflesso di una esistenza, un’immagine mistificata della (non) vita che le persone sentono il bisogno di condividere e mostrare, forse, per convincere, o meglio, convincersi che nonostante tutto loro stanno vivendo, sono felici. Metahaven e Rob Schröde attraverso uno strabiliante collage visivo, in cui filmati del web ed estratti di documentari si fondono perfettamente con quelli della fiction, riflettono su come tutto ciò sia sintomatico dell’incertezza dell’esistenza e della disperazione che affligge le persone per le quali il mostrarsi e mostrare corrisponde sempre più al vivere: un piatto di spaghetti su Instagram o un selfie in cima ad una gru divengono immagini che certificano la vita, una traccia dell’esistenza in questo mondo. La preoccupazione maggiore risulta allora il come impostare la propria vita per impressionare e catalizzare lo sguardo degli altri su di sé, perché ormai si è talmente abituati ad essere visti che ciò risulta essere il fattore preminente che (con)forma una persona: si è ciò che gli sguardi altrui cercano. Ogni cosa deve essere visibile.

Possessed affronta il tutto in modo assai originale, con grande cura per il lato tecnico; un sonoro potentissimo accompagna splendide sequenze incredibilmente penetranti, ma il film si perde un po’ concettualmente: l’opera, chiaramente di stampo saggistico, nel mostrare il mondo da una prospettiva apocalittica e disquisire sulle (non) relazioni nell’era dei social media in cui tutto viene spettacolarizzato, persino lo scioglimento di un iceberg, appare non approfondita e non delinea in modo compiuto il discorso di cui vuole essere portatrice, risultando a tratti persino confusionaria. Nonostante ciò, a parere di chi scrive, l’operazione cinematografica messa in atto da Metahaven e Rob Schröde è di fondamentale importanza e più che mai necessaria.

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Voto: ★★★☆☆

Phantom Islands

Phantom Islands (2018) – Rouzbeh Rashidi   ⇒ English version at the bottom

Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun e Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità. L’ultimo film del fondatore della EFS, Phantom Inslands, come il recente Inside del duo Le Cain/Langan, verte invece su un rapporto di coppia alla deriva, in disfacimento psichico e fisico. I due, che sono interpretati splendidamente dai registi Daniel Fawcette e Clara Pais, vagano come spiriti inquieti, in balia di passioni e tormenti, per le verdeggianti isole irlandesi alla ricerca di qualcosa: probabilmente di se stessi.

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Il dramma incentrato sulla crisi di coppia richiama subito Andrzej Żuławski (Possession in primis), che è anche uno degli autori a cui è dedicato il film, gli altri sono Jean Epstein e Marguerite Duras. Il riferimento al regista polacco appare lampante per la messa in scena del dramma di coppia che, come nel capolavoro di Zulawski, sfocia in un rapporto delirante che altera ogni regola del melodramma e costituisce solo un punto di partenza per affrontare temi più ampi e profondi. Sintomatico di quest’ultimo aspetto è l’approccio cinematografico adoperato da Rashidi, che è volutamente provocatorio e si concretizza in una riflessione metacinematografica in cui la finzione e le istanze documentaristiche finiscono per (con)fondersi, risultando difficile discernere i due elementi. Sono molte, infatti, le sequenze in cui i due protagonisti rompono la barriera cinematografica puntando una polaroid verso lo spettatore e sul regista, che viene fotografato mentre è in atto di riprendere, similmente alla Ullmann che, in una sequenza di Persona (capolavoro di Ingmar Bergman), fotografa il pubblico, delineando così la finzione della riproduzione filmica in modo da mostrare la materia della pellicola e nello stesso tempo andare oltre i limiti della rappresentazione cinematografica.

La macchina fotografica adoperata dalla coppia, inoltre, fa pensare al concetto di fotogenia come concepito da Jean Epstein (altro regista a cui è dedicato il film).

«Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica. […] Dico adesso: solo gli aspetti mobili del mondo, delle cose e delle anime, possono vedere il loro valore morale accresciuto dalla riproduzione cinematografica.» – Jean Epstein

Per Epstein la fotogenia, l’essenza stessa del cinema, è ciò che è capace di penetrare le cose e rivelarne l’anima attraverso la riproduzione cinematografica, il solo modo per conoscere e mostrare aspetti della realtà e, soprattutto, dell’uomo altrimenti inconoscibili. Per Epstein, inoltre, la bellezza fotogenica risiede nella manipolazione dell’immagine cinematografica in quanto è ciò che permette di provare percezioni e sensazioni che non sarebbero possibili sperimentare nella realtà. Rashidi, il quale sembra profondamente influenzato da questa formulazione teorica di Epstein, ha fatto della manipolazione cinematografica il carattere peculiare del suo cinema, basti pensare a Trailers o a Ten Years In The Sun e anche in questo film non è da meno. L’immagine è sottoposta a distorsioni e a fuori fuoco che ipnotizzano lo spettatore e lo mettono a contatto con i fantasmi che si portano dietro i due protagonisti nella loro peregrinazione per le isole: si ha la sensazione di perdersi con loro nei loro deliri e fantasticherie, entrare in simbiosi come loro con la natura delle isole, subire visioni sovrannaturali ed emozioni estreme e nel finale assistere finalmente a quel ricongiungimento, a cui sembrano mirare i due fin dall’inizio, con la loro parte più recondita, in sostanza con la loro anima, ma con la consapevolezza che tutto è il frutto di una riproduzione cinematografica, il solo mezzo appunto, come teorizzato da Epstein, in grado di accrescere e far provare nuove percezioni che nella realtà non si riuscirebbe a cogliere.

Rouzbeh Rashidi con Phantom Islands è artefice di un’altra opera incredibile che ridefinendo il concetto stesso di cinema è destinata a divenire un punto irremovibile nell’avant-garde contemporanea e futura.

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Voto: ★★★★☆

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TOP 10 MIGLIORI FILM DEL 2017

MENZIONI SPECIALI

Mrs. Fang – Wang Bing

Fang Xiuying del titolo è una signora di sessantasette anni che soffrendo da diversi anni di Alzheimer, con sintomi avanzati, dopo un trattamento inefficace, è stata mandata a casa. Qui, ridotta in uno stato vegetale, quindi priva di coscienza, completamente inane, è distesa sul letto circondata dai parenti e vicini che riuniti al suo capezzale l’assistano nei suoi ultimi giorni di non-vita o meglio sono in attesa che ella esali il suo ultimo respiro per scoppiare finalmente in quel dolore che sembra destinato a non manifestarsi finché non sia giunta quell’ora fatidica, in cui l’anima abbandona definitamente il corpo. Continua

Thelma – Joachim Trier

Thelma è capace di poteri misteriosi, ma a lei sconosciuti perché repressi e condannati da due genitori manipolatori e fondamentalisti fin dalla tenera età. Poteri che si manifestano quando per l’agitazione interiore ha delle improvvise e anomale crisi epilettiche. Thelma è certamente tra le sorprese più liete di questo 2017. Si presenta come un thriller psicologico e sovrannaturale in cui quest’ultimo elemento risulta da subito solo una cornice perfetta per affrontare un dramma familiare a sfondo religioso sublimemente narrato. Emozionante, profondo, complesso e sensuale. Il film esplora in modo incredibile i confini tra realtà e fantasia, luce e oscurità, bene e male nella natura umana.

TOP 10 

10. Inside – Vicky Langan / Maximilian Le Cain

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Inside, il primo lungometraggio della coppia Vicky Langan e Maximilian Le Cain, già artefici insieme di numerosi cortometraggi, è un’opera che esplora la vita interiore di una donna in disfacimento psichico. I due registi manifestano questo decadimento interiore manipolando magistralmente il mezzo filmico: attraverso l’uso ripetuto di distorsioni strabilianti dell’immagine e messe a fuoco anomale rivelano esternamente le sensazioni, i desideri, le illusioni e le fantasticherie represse dalla donna, anche da un rapporto coniugale in deriva. La casa, in una zona remota in campagna, diviene il simbolo principale del suo malessere e non fa altro che accrescere la frustrazione e il senso di solitudine in cui versa la donna. Inside è un altro grandissimo film della EFS che merita assolutamente considerazione e pubblico.

9. Caniba – Lucien Castaing-Taylor / Verena Paravelche

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Nel 1981, Issei Sagawa, studente giapponese della Sorbona di Parigi, dopo aver inviato una compagna di studi nel suo appartamento, la uccise con un fucile e la mangiò gradualmente. Dichiarato inabile, Sagawa ottenne l’estradizione in patria, in Giappone, dove venne liberato dalla custodia in pochi mesi e divenne una celebrità per il suo atteggiamento impenitente nei riguardi dell’’accaduto. Caniba non è un documentario su Sagawa, non documenta la sua vita né ripercorre l’omicidio, ma è una riflessione sulle pulsioni cannibalistiche dell’essere umano nella società moderna fornendo uno sguardo ravvicinato (letteralmente) di un mostro, di un cannibale, ora immobile su una sedia a rotelle e assistito dal fratello. I due registi ritraggono Issei esclusivamente attraverso l’uso del close-up e fuori fuoco in modo da fornire una visione del suo volto deformato, mostruoso.

8. The Killing of a Sacred Deer – Yorgos Lanthimos

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L’ultimo Lanthimos è un’opera tecnicamente perfetta: ben girata, interpretata in modo superbo, scritta magnificamente e meravigliosamente inquietante. Il chirurgo di successo dottor Steven Murphy ha tutto: una bella moglie, due bambini adorabili e una casa lussuosa. Il perfetto equilibrio familiare è messo a rischio dal giovane Martin che sembra voler punire e distruggere la vita del dottore a causa di un suo oscuro segreto. Il film scivola così lentamente nell’orrore, nel fantastico più disturbante, nel mito, già preannunciato dalle allusioni alla mitologia greca del titolo. The Killing of Sacred Deer è un film colmo di un’oscurità, onnipresente e divorante che permane anche dopo che è terminato. I manierismi, le conversazioni, le azioni disumane dei personaggi e la colonna sonora che si insinua in ogni scena amplificano tutto il disagio che permea il film e a cui risulta impossibile sottrarsi.

7. A Yangtze Landscape – Xu Xin

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Il documentario di Xu Xin, girato in un bianco e nero straordinariamente bello, è un viaggio lungo il corso dello Yangtze, il Fiume Azzurro che taglia longitudinalmente la Cina. Xu Xin segue l’intera lunghezza del fiume Yangtze, fornendo un panorama allo stesso tempo splendido e inquietante della terra e della gente che la popolano, per lo più emarginati.

6. Drifting cities – Michael Higgins

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Con quest’ultimo film, Higgins si rivela essere uno dei registi più eclettici e sorprendenti della Experiment Film Society, capace di muoversi da una rappresentazione immediata, caotica e dinamica, tutta improntata all’improvvisazione, come quella di Stone Boat, a un’opera evanescente, inafferrabile, a lungo meditata come Drifting Cities. Continua/Eng

5. Taming the Horse – Tao Gu

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Tao e Dong, prima che quest’ultimo segua la sua famiglia per cercare fortuna in una grande città della Cina meridionale, si ripromettono che un giorno sarebbero tornati nel villaggio natale in cui erano cresciuti, nella Mongolia Interna. Quando Tao, ora regista, alla vigilia del trentesimo compleanno di Dong arriva in città con in mano una videocamera, sembra giunto il momento di adempiere alla promessa di dieci anni prima. Dong per tutto il periodo del suo soggiorno filma con grande sensibilità l’amico che ha perso la sua strada: è un perdente deriso, socialmente turbato, un sognatore disilluso che svogliato, tra attacchi di depressione e abuso di sostanze, lotta per trovare denaro, amore e sesso. Attraverso questo ritratto di un’anima alienata che lotta in una società capitalista in rapida evoluzione come quella cinese, Taming the Horse manifesta la condizione di disperazione e spaesamento di una gioventù che cerca di trovare la sua strada tra i desideri e le speranze perdute dell’infanzia e una realtà cruda e ostile, quella dell’età adulta.

4. The Earth Still Moves –  Pablo Chavarría Gutiérrez

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Tra le visioni più estatiche e potenti dell’anno. Gutiérrez sembra non sbagliare un colpo: dopo il bellissimo “Las Letras” realizza un altro grandissimo film. The Earth Still Moves, attraverso immagini spettrali e mistiche, manifesta la realtà dietro alla realtà fisica, un mondo oscuro in cui una miriade di piante e animali si muovono in balia di impulsi primordiali, in cui l’uomo è solo una parte di un macrocosmo più grande. Il mezzo cinematografico diviene, così, la lente di ingrandimento per cogliere l’essenza invisibile, microscopica e sensoriale del mondo nei suoi minimi cambiamenti, il solo in grado di rilevare le ombre che la popolano, esperimentare l’ultraterreno.

3. Paris est une fête – un film en 18 vagues – Sylvain George

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Sylvain George realizza un’opera cinematografica e, ancor prima, un’opera politica tra le più penetranti e conturbanti degli ultimi anni. Un film che trascende l’essenza del documentario concretizzandosi in un’esperienza poetica più che in una riproduzione filmica. Fortemente eversivo e intriso di uno sperimentalismo di straordinaria suggestione visiva, Paris est una fête è un caos apparente di immagini che, seppur frammentarie, arrivano dirette alla mente dell’osservatore, colpendolo. Continua/Eng

2.  Animal Kingdom – Dean Kavanagh

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Cinema come metamorfosi artistica: trasmutazione e alterazione della realtà, mutazione della materia e del corpo fisico, rinnovamento del mezzo filmico attraverso il suo superamento taumaturgico. Animal Kingdom, l’ultima opera del giovane e sorprendente regista Dean Kavanagh, si rivela essere la manifestazione ascensionale del nuovo cinema sperimentale irlandese che trova il suo punto di riferimento nella EFS e che, come il film manifesto “Trailers”del collega Rouzbeh Rashidi, esplora l’essenza latente ed inespressa del cinema. Film estremamente denso di simbolismo e di chiare allusioni meta-cinematografiche, si concretizza fin da subito in un viaggio occulto all’interno di una dimensione ancestrale, in bilico tra una realtà mistica e una profana e animale. Continua

1. Unrest – Philippe Grandrieux

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L’autore visionario Philippe Grandrieux, dopo la realizzazione di tre lungometraggi di grande impatto visivo e sensoriale, ha dato avvio nel 2012 a un progetto di stampo sperimentale che si articola su diverse piattaforme (performance, video-installazione) con l’intento di indagare e rappresentare la condizione di paura, d’ansia e d’inquietudine che affligge l’animo umano. A tale scopo Grandrieux spinge all’estremo ogni elemento cinematografico del suo cinema: i corpi, da elementi principali divengono i soli presenti, i dialoghi scompaiono del tutto, il sonoro conturbante domina la scena. Unrest, preceduto da White Epilepsy (2012) e Meurtriere (2015), è l’ultimo atto di questo progetto. È suddiviso in tre segmenti, molto differenti l’uno dall’altro, che rievocano i due precedenti movimenti. Ogni segmento è dominato da un corpo femminile, il primo dei quali è nell’atto di sprigionare onde sensoriali, sensazioni potenti e instabili provocate dall’autoerotismo, il secondo emerge lentamente dall’oscurità per poi perdersi nuovamente in essa attraverso movimenti quasi immoti e il terzo, infine, appare come un presenza spettrale e inquietante in un bosco tenebroso.

Animal Kingdom

Animal Kingdom (2017) – Dean Kavanagh ⇒ English version at the bottom

Cinema come metamorfosi artistica: trasmutazione e alterazione della realtà, mutazione della materia e del corpo fisico, rinnovamento del mezzo filmico attraverso il suo superamento taumaturgico. Animal Kingdom, l’ultima opera del giovane e sorprendente regista Dean Kavanagh, si rivela essere la manifestazione ascensionale del nuovo cinema sperimentale irlandese che trova il suo punto di riferimento nella EFS e che, come il film manifesto “Trailers” del collega Rouzbeh Rashidi, esplora l’essenza latente ed inespressa del cinema. Film estremamente denso di simbolismo e di chiare allusioni meta-cinematografiche, si concretizza fin da subito in un viaggio occulto all’interno di una dimensione ancestrale, in bilico tra una realtà mistica e una profana e animale.

Uno straniero si addentra nei recessi più profondi di questo mondo, dove due enigmatiche figure sono alle prese con rituali e stregonerie dirette al superamento della condizione umana attraverso la trasmutazione in animale. L’estraneo, malamente cacciato dai due, è “salvato” da una figura muliebre, una ninfa melissa, emblema della rigenerazione e del ciclo eterno della vita costituita dall’alternarsi di morte e rinascita. La simbologia dell’ape, infatti, rievocato dalla donna che raffigura le virtù femminili di integrità, purezza e fertilità, sembra il nucleo attorno a cui il film si costruisce e si sviluppa quasi implicitamente. Non a caso, in una delle prime sequenze, si scorge uno sciame di api sotto lo sfarfallio del quale è riconoscibile l’immagine della donna. In altre, invece, la si vede perfettamente inserita all’interno della vita coniugale nelle vesti di una moglie equilibrata. Allo straniero, infine, si palesa con gli atteggiamenti sensuali e provocanti propri di una (ape) regina divoratrice di uomini.

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Da lei sola, madre generatrice, dipende la sopravvivenza dell’uomo nel regno (animale), mediante il suo sacrificio materno: gli uomini si avventano famelici sul suo corpo denudato, si nutrono della sua carcassa e rinascono sotto sembianze animali con le striature nere caratteristiche delle api, proprio come nel fenomeno della bugonia descritto nelle Georgiche del poeta Virgilio, in cui le api prendono vita dalla carcassa di un bue. L’ape nasce o ri-nasce come metafora della purezza dell’anima, dalla carcassa del corpo umano, ora superato.

La figura femminile, che si dona e così facendo genera nuova vita a partire dalla materia organica e inanimata, non è altro che la personificazione del cinema. Con il suo atto, influenza la costruzione, l’andamento e la stabilità fisica di ogni aspetto cinematografico. La sua forza vitale muove ogni elemento sia paesaggistico sia quelli inerenti ai soggetti che appunto si tramutano, ascendono a nuova forma. Il cinema, dunque, attraverso la sua immolazione, di cui lo spettatore è imperterrito testimone, rinasce, progredisce a un livello superiore, perisce per superarsi nella forma e nella sostanza. Kavanagh riesce ad esprimere magnificamente tale metamorfosi cinematografica, realizzando ottimamente una sua sceneggiatura di base superba, con grande padronanza del mezzo filmico e con una sorprendente giustapposizione degli elementi più sperimentali della pellicola. Egli con Animal Kingdom ha certamente raggiunto un nuovo livello di sperimentazione cinematografica destinato a fare scuola, da seguire rigorosamente per una continua innovazione del cinema.

Voto: ★★★★☆

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Goodbye CP

Goodbye CP (1972) – Kazuo Hara

Goodbye CP, il primo lungometraggio di Hara, è un’opera devastante, di una potenza inaudita, profondamente vera e priva di ogni sorta di pietismo nei confronti dei soggetti ripresi: uomini e donne affetti da paralisi cerebrale.

Diversamente da quello che ci si aspetterebbe da un documentario che si occupa di persone emarginate, disabili reietti dalla società, il regista non le ritrae mentre svolgono con fatica le normali attività della vita quotidiana a causa della disabilità fisica e mentale, così da suscitare ammirazione e compassione, ma, rifiutando ogni genere di artificio, servendosi di una rappresentazione oggettiva, introduce lo spettatore direttamente nella loro difficoltosa esistenza. A tale scopo, non si sofferma sulla tragica condizione delle persone disabili, sulle quali grava un forte stigma, ma sulla modalità in cui si sono potute adattare a una struttura sociale complicata come quella giapponese.

Hara segue in modo diretto e quasi ossessivo alcune persone, tra cui Yokota Hiroshi in particolare, per tutta la durata del film. Per fornire una rappresentazione il più possibile completa e veritiera, non si trattiene dal ledere la loro intimità, come nelle interviste che trattano temi personali quali la sessualità o nella sequenza in cui, irrompendo nell’abitazione di Yokota Hiroshi genera un’accesa discussione coniugale: la moglie, anch’essa disabile, sostiene che Hara stia dipingendo il marito come un mostro e temendo che le riprese possano minare i tentativi della coppia di essere considerata parte integrante della società, minaccia il marito con il divorzio se avesse continuato la sua partecipazione al documentario. Yakota, invece, acconsente persino a mostrare il suo corpo nudo e deforme in una strada del centro preferendo gattonare per la città al posto di usare la sedia a rotelle. L’impatto che esercita questa visione risulta ancora maggiore se si pensa al contesto storico e culturale in cui è stata girata, il Giappone degli anni ‘70, quando ai disabili non era permesso lasciare il domicilio. Nonostante ciò, sono poche le scene che vedono Yokota a casa: per la maggior parte del tempo si trascina sulle ginocchia per le vie della città insieme a un gruppo di malati come lui, con i quali distribuisce volantini, parla al megafono e chiede l’elemosina, da vero e proprio attivista.

L’operazione cinematografica di Hara ha sollevato non poche controversie e questioni etiche sia per la modalità con cui effettua le riprese sia per la rappresentazione in sé, ma, in fin dei conti, non fa altro che documentare la realtà per quella che è, privandola di ogni velo con il quale la società ha voluto mascherarla, con la finalità di risvegliare la coscienza di coloro che sono inclini a stigmatizzare le persone colpite da qualsiasi tipo di handicap fisico o mentale. Goodbye CP, dunque, non è un’opera che incoraggia all’empatia, ma che mostra la cruda verità: lo spettatore riconosce in se stesso quella paura ancestrale che sorregge la struttura sociale e se ne sente responsabile. A chi non è mai capitato, infatti, di cambiare strada quando incontra un clochard o di dare l’elemosina a un mendicante? Gli intervistati in realtà rivelano che dietro a un gesto apparentemente caritatevole come l’elemosina si cela spesso il bisogno inconscio di placare lo stato di tensione generato dalla vista di un miserabile. Avendone la consapevolezza, i protagonisti del documentario muovono a pietà le persone “normali” e rivendicano il loro bisogno di essere accuditi. Hara, dunque, offre una visione incondizionata da ogni pregiudizio e con un occhio distaccato consente allo spettatore di vedere i soggetti ripresi per quello che sono: uomini miserabili, soli in una società estranea e ipocrita che, incapace di instaurare con loro un rapporto autentico, si limita a ostentare una filantropia intrisa di pietà e commiserazione esibita.

«How can i say? After all…in many levels…I require…Some form of protection. That’s the only way…I can survive. I could never be on my own. In that sense, that realization made me feel…totally empty. To be honest, I’m not sure…how I can move on. That’s how I feel.»

– Yokota Hiroshi

Goodbye CP, ancora oggi, si annovera tra i documentari più coraggiosi, penetranti, onesti e scandalizzanti mai realizzati.

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Voto: ★★★★☆

Psicopompo

Psicopompo (2015) – Morgan Menegazzo & Mariachiara Pernisa

Sono le opere come questa del duo Menegazzo/Pernisa che testimoniano quanto il cinema sia potente e infinito, forma d’arte che trascende ogni senso. La trascendenza, in particolare, caratterizza l’intera durata del cortometraggio. La pellicola, infatti, è la trasposizione cinematografica del pensiero secondo cui la morte, al pari della vita, non coincide con la fine di tutte le cose, ma con un passaggio di stato, una trasformazione, la trasmigrazione dell’anima verso la Luce Ultraterrena, ovvero verso l’Infinito. In particolare, è centrato sul viaggio di un’anima inquieta che viene assistita dallo Psicopompo, una figura mitologica avente il compito di condurre le anime dei defunti nell’Aldilà. Lo Psicopompo, non è altro che il film stesso, o più in generale il cinema, che divenendo allo stesso tempo traghetto e traghettatore, accompagna l’anima nel suo percorso verso l’Oltre, nel suo ineluttabile cambiamento di stato che qui si manifesta nella sua natura più traumatica e sconvolgente. Paura e affanno divengono fin da subito le componenti dominanti della pellicola ed esercitano prepotentemente la loro morsa disarmante tanto sullo spettatore quanto sullo spirito inquieto che sembra faticare molto a trovare la retta via. Appare intrappolato in un limbo, a metà tra due mondi agli antipodi: uno terreno, destinato inesorabilmente a sgretolarsi come le rocce che franano lentamente, il cui rumore si percepisce in sottofondo, e uno ultraterreno che, seppur destinato a durare per un’eternità rassicurante, genera turbamento per la sua natura oscura.

“Se dicessi <<là c’è un’uscita, da qualche parte c’è un’uscita>> il resto verrebbe da sé. E cosa aspetto, allora, per dirlo, di crederci? E che significa il resto? Devo rispondere? Cercare di rispondere? Oppure continuare come se non avessi chiesto niente?”

Queste le uniche parole che, pronunciate all’inizio del film da una voce ormai privata del suo corpo, esprimono la condizione di incertezza e turbamento in cui l’anima inquieta si trova per non essere in grado di recidere ogni legame con la vita terrena, o meglio, con il fantasma di questa che, pur essendo un’immagine sbiadita dell’originale, continua ad esercitare il suo fascino seducente, impedendogli di andare incontro alla luce che si intravede in fondo al tunnel. Il fulcro dell’intera opera, infatti, è il dissidio interiore che costringe a confrontarsi dolorosamente con le reminiscenze spettrali di un’esistenza da dimenticare per poter così finalmente rinascere nell’Eternità. I due registi, giocando sapientemente con la luce, i fuori fuoco e adoperando con grande maestria le dissolvenze, creano un’atmosfera tremendamente inquietante che permea tutta la durata del film e che riesce a descrivere con estrema nitidezza il percorso di metamorfosi in atto. Il processo così manifestato, con la potenza orrorifica delle immagini che lo caratterizza, sconvolge a fondo lo spettatore, il quale viene portato a sperimentare il delirio psichico a cui assiste e a cui non può sottrarsi perché lo Psicopompo non lascia scampo. Per questo, Psicopompo del duo Menegazzo-Pernisa è un’opera che, nonostante la sua brevità, lascia un solco profondo nell’animo e nella mente di chiunque lo guardi.

Voto: ★★★★☆

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) – Jonas Mekas

Jonas Mekas, cineasta lituano, è tra le figure più importanti del panorama underground, tra coloro che hanno maggiormente promosso il cinema indipendente e sperimentale americano, fondatore della rivista Film Culture e co-fondatore della Anthology Film Archives, una vera e propria mecca dell’avanguardia artistica. Dopo aver trascorso parte della sua gioventù nei campi di lavoro nazisti, emigra dalla terra natia e ricopre la scena artistica di New York degli anni ‘50 e ‘60, dove conosce icone culturali come Andy Warhol e John Lenon, nonché i più grandi esponenti del movimento indipendente e d’avanguardia come Brakhage, Ken Jacobs, Hollis Frampton, Peter Kubelka e Paul Sharits, divenuti suoi amici. Nel 2000 realizza quello che, senza ombra di dubbio, rappresenta il suo opus magnum. As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty, infatti, è l’espressione più alta e completa di quel pensiero artistico e cinematografico, già manifestato in altre opere da Mekas, che si concretizza nel cine-diario:

All’inizio pensavo che ci fosse una profonda differenza fra il diario scritto che uno scrive la sera, e che è un processo riflessivo, e il diario filmato. Nel mio diario filmato pensavo di stare facendo qualcosa di diverso: sto impressionando su pellicola la vita, pezzi di vita, così come avveniva. Ma ho capito molto presto che non c’era grande differenza. Quando riprendo, sto anche riflettendo, invece io pensavo che stessi solo reagendo alla realtà. Non ho grande controllo sulla realtà, tutto è determinato dalla mia memoria, dal mio passato. Così, quel modo “diretto” di filmare è diventato anche un modo di riflettere.”

È proprio quello che il regista si prefigge con questo film, ovvero impressionare sulla celluloide frammenti di vita, “brief glimpses of beauty”, o per usare le sue stesse parole, “fragment of paradise”:

Un compleanno. I primi passi dei figli. Un temporale. Il suo matrimonio. Il battesimo e la comunione dei figli. I suoi viaggi in Francia, Italia, Spagna, Austria. Il rosso dei gerani. Un gatto che gioca. L’acqua di una pozzanghera sull’asfalto. Amici che condividono una bottiglia di vino nel parco. Una vecchia macchina da stampa. Dei fotografi ambulanti. Delle lezioni di ballo. Una partita a scacchi. Un venditore di hot dog in un giorno invernale. Una tenda che sventola nella brezza. Un pomeriggio sdraiato a letto. Uno stormo di uccelli che prende il volo. Un festival di strada. Un barbecue in cortile. Una lotta a palla di neve. Estati nel parco. La sua famiglia. Serate con gli amici…

Sono solo alcune delle “immagini di paradiso” che Mekas condivide nel suo monumentale documentario della durata di 5 ore. Il prodotto filmico, risultante dall’unione dei filmati casalinghi, sulla famiglia e sulla realtà quotidiana che il regista ha girato nell’arco di molti anni, potrebbe erroneamente far pensare che esso si concretizzi in una semplice raccolta di memorie di vita da condividere con famigliari e amici. In realtà Mekas è un grandissimo artista e come tale, al tavolo di montaggio, compie un’operazione cinematografica strabiliante, conferendo al prodotto le fattezze di un film, di una vera e propria opera d’arte. I frammenti di vita sono raccolti in splendidi vortici rapsodici. I pezzi di pellicola vengono tagliati, rimontati, sovrapposti. Le scene scorrono come in un fiume nostalgico, un flusso mnemonico casuale, privo di un nesso logico che non sia quello arbitrario del ricordo.  Il montaggio frenetico che dà l’impressione di stare navigando tra quei ricordi convulsi, viene attenuato dall’impiego di musica classica che accompagna ogni frammento di memoria e dalla voce soave di Mekas che interviene attraverso un commento audio o che disquisisce in voice-over sui più diversi argomenti, dalla sua concezione della vita a quella dell’arte e del cinema. In assenza di ciò, il film sarebbe muto.

Si potrebbe obbiettare che nel film di Mekas non succeda nulla di significativo. Lo stesso regista afferma che non vi è alcunché di spettacolare, nessun dramma, nessun climax, nessuna tensione, solamente delle attività quotidiane molto semplici e banali, solamente la vita, così com’è.

“You must by now come to a realization that what you are seeing is a sort of masterpiece of nothing. Nothing. You must have noticed my obsession with what’s considered as nothing, in cinema and life, nothing very important. We all look for those very important things… Very important things. And here there is nothing important, nothing.”

Non accade nulla, ma in realtà tutto sta accadendo: la vita si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. Mekas coglie la poesia e la bellezza che risiede in ciascuna di quelle azioni e imprime quei frangenti sulla pellicola sotto forma di uno sconvolgimento immaginifico, la cui sincerità e semplicità è tale da ipnotizzare chiunque si trovi a guardarli. Il film risulta essere la più grande celebrazione delle piccole cose, una celebrazione catartica della possibilità della vita e di tutta la bellezza che ne deriva, una dichiarazione di speranza e di ottimismo, una immagine della vita che non può che affascinare per l’amore che Mekas ha nei suoi confronti, per l’armonia dei sentimenti e dei pensieri, per la sua nobiltà e lucidità. Egli riesce a rendere estatici piccoli momenti, ricordandoci la loro importanza, come i primi passi di un bambino o la bellezza miracolosa di un albero in primavera che all’improvviso fiorisce. Mekas ci ricorda che il paradiso è qui e ora, in tutti quei piccoli momenti di vita.

Jonas Mekas è artefice di un’operazione cinematografica incredibile. Egli imprime la memoria sulla pellicola e con essa il tempo, essendo entrambi due facce della stessa medaglia, fusi indissolubilmente l’una nell’altro. Mekas, come direbbe Tarkovskij, “scolpisce il tempo” così da poter “riprodurre, quante volte si desidera, lo scorrere del tempo sullo schermo”. Egli coglie il tempo nel suo legame concreto e indissolubile con la materia stessa della realtà che lo circonda. Mekas ha recepito e interpretato mirabilmente la lezione del maestro russo, secondo il quale il cinema, più di ogni altra forma d’arte, amplia, arricchisce e concentra l’esperienza fattuale dell’uomo e, così facendo, non solo l’accresce, ma l’allunga, la eternizza.

Il cinema di Mekas è puro, vitale, intimo e personale (perché relativo alla sua dimensione privata), ma, allo stesso tempo, fortemente legato alla realtà vissuta che lo circonda, osservata con grande interesse e obiettività. Egli, in fin dei conti, descrive la realtà fattuale così come accade, quindi oggettivamente, ma la esprime attraverso una lente soggettiva che consiste nella visione profondamente umana della realtà che si manifesta nella sua opera e che sostanzialmente è anche quella di ogni altro uomo. Lo spettatore è chiamato a immergersi in questa realtà, nell’esperienza vitale di Mekas e, a sua volta, a contemplare la propria.

“L’arte esprime tutto ciò che vi è di migliore nell’uomo: La Speranza, la Fede, la Carità, la Bellezza, la Preghiera […] Essa è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.” – Andrej Tarkovskij

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty è racchiuso in queste parole di Andrej Tarkovskij. È un’opera artistica irripetibile che rispecchia l’autentico significato della vita, un bellissimo atto di amore nei confronti del cinema e della vita stessa.

Voto: ★★★★★

  DVD

Drifting Cities

Drifting Cities (2017) – Michael Higgins ⇒ English version at the bottom

Con quest’ultimo film, Higgins si rivela essere uno dei registi più eclettici e sorprendenti della Experiment Film Society, capace di muoversi da una rappresentazione immediata, caotica e dinamica, tutta improntata all’improvvisazione, come quella di Stone Boat, a un’opera evanescente, inafferrabile, a lungo meditata come Drifting Cities.

Quest’ultimo è evanescente nell’accezione più ampia del termine: le due protagoniste della vicenda narrata, o meglio, manifestata, sono delineate da pensieri e ricordi che riaffiorano sotto forma di immagini eteree, bloccate e rese eterne in un limbo di reminiscenza mnemonica, in bilico tra mondi distanti e opposti: il presente e il passato, la vita e la morte. Ectoplasmi aleggiano in un mondo incolore, alla deriva, che sopravvive e vive solamente grazie a vecchi filmati che si ripetono come se l’unico modo per continuare a (r)esistere fosse quello di aggrapparsi al passato mediante il mezzo filmico. È il cinema che diventa mondo o è il mondo che diventa cinema? Che sia l’uno o l’altro, in Drifting Cities i due elementi si fondono a tal punto che risulta difficile distinguere il confine tra la realtà e il mezzo attraverso cui viene rappresentata, il film.

La struttura narrativa e visiva che si regge e si evolve su un piano prettamente meta-cinematografico costituisce il centro nevralgico dell’intera opera di Higgings, relegando sullo sfondo la vicenda storica, che appare quasi un mero pretesto per manifestare le potenzialità infinite del mezzo filmico: il cinema. Il film di Higgins, infatti, ha per protagonista indiscusso il cinema, il quale si manifesta sia come sostanza, nella sua essenza necessaria nell’atto di esistere, sia come forma (materiale), nell’atto di far esistere. La prima, riguardante una dimensione interna all’opera, è descritta da sequenze di immagini estatiche che esprimono la vicenda soprattutto sotto forma di una narrazione omodiegetica: volti diafani rimembrano lontane reminiscenze in lunghi silenzi estatici. La seconda, invece, che dovrebbe riguardare la dimensione esterna all’opera, quella meccanica e fisica costituita dagli strumenti che riproducono le immagini, di norma celati all’occhio dello spettatore, viene resa esplicita dal rumore della pellicola che accompagna la maggior parte dell’opera, dai filmati in cui fluiscono immagini di vita famigliare e, soprattutto, dai grandi schermi, come quello nella sequenza conclusiva in cui si assiste a una sorprendente operazione meta-cinematografica: il film stesso sembra essere proiettato su un grande pannello, che forma una specie di gigantesca video-installazione sulla quale scorrono i flussi mnemonici di un’esistenza passata o futura.

Higgins, in questo modo, rompe definitivamente il confine tra finzione e realtà: il mezzo combacia con il fine, scompare la distinzione tra il mondo reale esterno allo strumento filmico e quello “fittizio” che si trova al suo interno. Si assiste, così, ad una rinnovata vitalità rappresentata sull’enorme schermo dalle due protagoniste che si lasciano andare ad una sfrenata danza energica, segno che ormai tutto è cinema:

“Ricordiamo il mondo per il cinema. Possiamo ricreare o ricostruire i nostri ricordi attraverso il cinema. Possiamo anche reinventare i nostri ricordi. Il cinema tornerà al passato, al presente, al futuro… a adesso! Il cinema ci porterà al passato, al presente al futuro…a adesso! Cinema è esistere”.  (Century of Birthing, Lav Diaz, 2011)

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Voto: ★★★★☆

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