Silent Mist

Silent Mist (2017) –  Zhang Miaoyan

Nell’oscurità della notte, una misteriosa coltre di nebbia cala su un tranquillo paesino sul lungofiume della Cina. Un vecchio (un musicista errante?) arriva nel villaggio e vaga per i suoi stretti vicoli. Ombre tetre si innalzano sui muri delle vie. Sono il presagio di avvenimenti sinistri. Infatti una figura famelica si muove silenziosamente per i cunicoli del villaggio alla ricerca della sua prima preda: una studentessa.

Silent Mist è liberamente basato su eventi realmente accaduti in un piccolo villaggio della Cina: una serie di stupri di giovani donne, il cui colpevole non fu mai identificato. Un plot perfetto per un thriller/giallo, i cui elementi in parte permangono, si consolida invece in un dramma sociale, che fornisce un ritratto attuale della Cina extraurbana in trasformazione alle prese con la sempre più crescente influenza dell’avidità, del potere e della corruzione. Dove tutti vedono tutto ma nessuno dice nulla: la malizia serpeggia tra i vicini, le donne violate segnate dalla vergogna sono nullificate e lasciate a se stesse, a lottare, da sole, con il trauma della violenza e dello stigma sociale. In un film in cui sostanzialmente domina il silenzio (del villaggio innanzitutto) Zahng manifesta splendidamente il malessere interiore delle vittime attraverso sequenze estatiche in cui esse vagano per le strette vie del paesino in uno stato quasi catatonico, sole con la loro disperazione.

In un simile contesto, in cui gli abitanti guardano dall’altra parte, il misterioso stupratore che già trova il favore delle tenebre e della nebbia si trova in condizione perfetta per agire indisturbato, di farla franca e prendere ciò che vuole, o meglio chiunque voglia. Allo stesso modo il grasso uomo d’affari, l’unico che potrebbe fare qualcosa per la comunità, approfitta invece della situazione per accrescere la propria influenza e il proprio potere sugli abitanti del tutto incapaci di far fronte a tali eventi nefasti per paura e incertezza. Citando le parole del regista, sembra che la libertà appena trovata sia utilizzata prevalentemente per il guadagno individuale e gli stupri in Silent Mist costituiscono un simbolo di questa “libertà” individuale acquisita a costo dell’altro innocente.

Dal punto di vista tecnico Silent Mist è un’opera eccelsa, visivamente splendida, che sfoggia le incredibili capacità registiche dell’autore, fatta di lunghi piani sequenza, uso di stili e lenti vari come il POV e il grandangolo che creano grande atmosfera e suspense.

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Voto: ★★★★☆

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TOP 10 MIGLIORI FILM DEL 2017

MENZIONI SPECIALI

Mrs. Fang – Wang Bing

Fang Xiuying del titolo è una signora di sessantasette anni che soffrendo da diversi anni di Alzheimer, con sintomi avanzati, dopo un trattamento inefficace, è stata mandata a casa. Qui, ridotta in uno stato vegetale, quindi priva di coscienza, completamente inane, è distesa sul letto circondata dai parenti e vicini che riuniti al suo capezzale l’assistano nei suoi ultimi giorni di non-vita o meglio sono in attesa che ella esali il suo ultimo respiro per scoppiare finalmente in quel dolore che sembra destinato a non manifestarsi finché non sia giunta quell’ora fatidica, in cui l’anima abbandona definitamente il corpo. Continua

Thelma – Joachim Trier

Thelma è capace di poteri misteriosi, ma a lei sconosciuti perché repressi e condannati da due genitori manipolatori e fondamentalisti fin dalla tenera età. Poteri che si manifestano quando per l’agitazione interiore ha delle improvvise e anomale crisi epilettiche. Thelma è certamente tra le sorprese più liete di questo 2017. Si presenta come un thriller psicologico e sovrannaturale in cui quest’ultimo elemento risulta da subito solo una cornice perfetta per affrontare un dramma familiare a sfondo religioso sublimemente narrato. Emozionante, profondo, complesso e sensuale. Il film esplora in modo incredibile i confini tra realtà e fantasia, luce e oscurità, bene e male nella natura umana.

TOP 10 

10. Inside – Vicky Langan / Maximilian Le Cain

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Inside, il primo lungometraggio della coppia Vicky Langan e Maximilian Le Cain, già artefici insieme di numerosi cortometraggi, è un’opera che esplora la vita interiore di una donna in disfacimento psichico. I due registi manifestano questo decadimento interiore manipolando magistralmente il mezzo filmico: attraverso l’uso ripetuto di distorsioni strabilianti dell’immagine e messe a fuoco anomale rivelano esternamente le sensazioni, i desideri, le illusioni e le fantasticherie represse dalla donna, anche da un rapporto coniugale in deriva. La casa, in una zona remota in campagna, diviene il simbolo principale del suo malessere e non fa altro che accrescere la frustrazione e il senso di solitudine in cui versa la donna. Inside è un altro grandissimo film della EFS che merita assolutamente considerazione e pubblico.

9. Caniba – Lucien Castaing-Taylor / Verena Paravelche

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Nel 1981, Issei Sagawa, studente giapponese della Sorbona di Parigi, dopo aver inviato una compagna di studi nel suo appartamento, la uccise con un fucile e la mangiò gradualmente. Dichiarato inabile, Sagawa ottenne l’estradizione in patria, in Giappone, dove venne liberato dalla custodia in pochi mesi e divenne una celebrità per il suo atteggiamento impenitente nei riguardi dell’’accaduto. Caniba non è un documentario su Sagawa, non documenta la sua vita né ripercorre l’omicidio, ma è una riflessione sulle pulsioni cannibalistiche dell’essere umano nella società moderna fornendo uno sguardo ravvicinato (letteralmente) di un mostro, di un cannibale, ora immobile su una sedia a rotelle e assistito dal fratello. I due registi ritraggono Issei esclusivamente attraverso l’uso del close-up e fuori fuoco in modo da fornire una visione del suo volto deformato, mostruoso.

8. The Killing of a Sacred Deer – Yorgos Lanthimos

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L’ultimo Lanthimos è un’opera tecnicamente perfetta: ben girata, interpretata in modo superbo, scritta magnificamente e meravigliosamente inquietante. Il chirurgo di successo dottor Steven Murphy ha tutto: una bella moglie, due bambini adorabili e una casa lussuosa. Il perfetto equilibrio familiare è messo a rischio dal giovane Martin che sembra voler punire e distruggere la vita del dottore a causa di un suo oscuro segreto. Il film scivola così lentamente nell’orrore, nel fantastico più disturbante, nel mito, già preannunciato dalle allusioni alla mitologia greca del titolo. The Killing of Sacred Deer è un film colmo di un’oscurità, onnipresente e divorante che permane anche dopo che è terminato. I manierismi, le conversazioni, le azioni disumane dei personaggi e la colonna sonora che si insinua in ogni scena amplificano tutto il disagio che permea il film e a cui risulta impossibile sottrarsi.

7. A Yangtze Landscape – Xu Xin

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Il documentario di Xu Xin, girato in un bianco e nero straordinariamente bello, è un viaggio lungo il corso dello Yangtze, il Fiume Azzurro che taglia longitudinalmente la Cina. Xu Xin segue l’intera lunghezza del fiume Yangtze, fornendo un panorama allo stesso tempo splendido e inquietante della terra e della gente che la popolano, per lo più emarginati.

6. Drifting cities – Michael Higgins

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Con quest’ultimo film, Higgins si rivela essere uno dei registi più eclettici e sorprendenti della Experiment Film Society, capace di muoversi da una rappresentazione immediata, caotica e dinamica, tutta improntata all’improvvisazione, come quella di Stone Boat, a un’opera evanescente, inafferrabile, a lungo meditata come Drifting Cities. Continua/Eng

5. Taming the Horse – Tao Gu

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Tao e Dong, prima che quest’ultimo segua la sua famiglia per cercare fortuna in una grande città della Cina meridionale, si ripromettono che un giorno sarebbero tornati nel villaggio natale in cui erano cresciuti, nella Mongolia Interna. Quando Tao, ora regista, alla vigilia del trentesimo compleanno di Dong arriva in città con in mano una videocamera, sembra giunto il momento di adempiere alla promessa di dieci anni prima. Dong per tutto il periodo del suo soggiorno filma con grande sensibilità l’amico che ha perso la sua strada: è un perdente deriso, socialmente turbato, un sognatore disilluso che svogliato, tra attacchi di depressione e abuso di sostanze, lotta per trovare denaro, amore e sesso. Attraverso questo ritratto di un’anima alienata che lotta in una società capitalista in rapida evoluzione come quella cinese, Taming the Horse manifesta la condizione di disperazione e spaesamento di una gioventù che cerca di trovare la sua strada tra i desideri e le speranze perdute dell’infanzia e una realtà cruda e ostile, quella dell’età adulta.

4. The Earth Still Moves –  Pablo Chavarría Gutiérrez

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Tra le visioni più estatiche e potenti dell’anno. Gutiérrez sembra non sbagliare un colpo: dopo il bellissimo “Las Letras” realizza un altro grandissimo film. The Earth Still Moves, attraverso immagini spettrali e mistiche, manifesta la realtà dietro alla realtà fisica, un mondo oscuro in cui una miriade di piante e animali si muovono in balia di impulsi primordiali, in cui l’uomo è solo una parte di un macrocosmo più grande. Il mezzo cinematografico diviene, così, la lente di ingrandimento per cogliere l’essenza invisibile, microscopica e sensoriale del mondo nei suoi minimi cambiamenti, il solo in grado di rilevare le ombre che la popolano, esperimentare l’ultraterreno.

3. Paris est une fête – un film en 18 vagues – Sylvain George

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Sylvain George realizza un’opera cinematografica e, ancor prima, un’opera politica tra le più penetranti e conturbanti degli ultimi anni. Un film che trascende l’essenza del documentario concretizzandosi in un’esperienza poetica più che in una riproduzione filmica. Fortemente eversivo e intriso di uno sperimentalismo di straordinaria suggestione visiva, Paris est una fête è un caos apparente di immagini che, seppur frammentarie, arrivano dirette alla mente dell’osservatore, colpendolo. Continua/Eng

2.  Animal Kingdom – Dean Kavanagh

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Cinema come metamorfosi artistica: trasmutazione e alterazione della realtà, mutazione della materia e del corpo fisico, rinnovamento del mezzo filmico attraverso il suo superamento taumaturgico. Animal Kingdom, l’ultima opera del giovane e sorprendente regista Dean Kavanagh, si rivela essere la manifestazione ascensionale del nuovo cinema sperimentale irlandese che trova il suo punto di riferimento nella EFS e che, come il film manifesto “Trailers”del collega Rouzbeh Rashidi, esplora l’essenza latente ed inespressa del cinema. Film estremamente denso di simbolismo e di chiare allusioni meta-cinematografiche, si concretizza fin da subito in un viaggio occulto all’interno di una dimensione ancestrale, in bilico tra una realtà mistica e una profana e animale. Continua

1. Unrest – Philippe Grandrieux

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L’autore visionario Philippe Grandrieux, dopo la realizzazione di tre lungometraggi di grande impatto visivo e sensoriale, ha dato avvio nel 2012 a un progetto di stampo sperimentale che si articola su diverse piattaforme (performance, video-installazione) con l’intento di indagare e rappresentare la condizione di paura, d’ansia e d’inquietudine che affligge l’animo umano. A tale scopo Grandrieux spinge all’estremo ogni elemento cinematografico del suo cinema: i corpi, da elementi principali divengono i soli presenti, i dialoghi scompaiono del tutto, il sonoro conturbante domina la scena. Unrest, preceduto da White Epilepsy (2012) e Meurtriere (2015), è l’ultimo atto di questo progetto. È suddiviso in tre segmenti, molto differenti l’uno dall’altro, che rievocano i due precedenti movimenti. Ogni segmento è dominato da un corpo femminile, il primo dei quali è nell’atto di sprigionare onde sensoriali, sensazioni potenti e instabili provocate dall’autoerotismo, il secondo emerge lentamente dall’oscurità per poi perdersi nuovamente in essa attraverso movimenti quasi immoti e il terzo, infine, appare come un presenza spettrale e inquietante in un bosco tenebroso.

Animal Kingdom

Animal Kingdom (2017) – Dean Kavanagh ⇒ English version at the bottom

Cinema come metamorfosi artistica: trasmutazione e alterazione della realtà, mutazione della materia e del corpo fisico, rinnovamento del mezzo filmico attraverso il suo superamento taumaturgico. Animal Kingdom, l’ultima opera del giovane e sorprendente regista Dean Kavanagh, si rivela essere la manifestazione ascensionale del nuovo cinema sperimentale irlandese che trova il suo punto di riferimento nella EFS e che, come il film manifesto “Trailers” del collega Rouzbeh Rashidi, esplora l’essenza latente ed inespressa del cinema. Film estremamente denso di simbolismo e di chiare allusioni meta-cinematografiche, si concretizza fin da subito in un viaggio occulto all’interno di una dimensione ancestrale, in bilico tra una realtà mistica e una profana e animale.

Uno straniero si addentra nei recessi più profondi di questo mondo, dove due enigmatiche figure sono alle prese con rituali e stregonerie dirette al superamento della condizione umana attraverso la trasmutazione in animale. L’estraneo, malamente cacciato dai due, è “salvato” da una figura muliebre, una ninfa melissa, emblema della rigenerazione e del ciclo eterno della vita costituita dall’alternarsi di morte e rinascita. La simbologia dell’ape, infatti, rievocato dalla donna che raffigura le virtù femminili di integrità, purezza e fertilità, sembra il nucleo attorno a cui il film si costruisce e si sviluppa quasi implicitamente. Non a caso, in una delle prime sequenze, si scorge uno sciame di api sotto lo sfarfallio del quale è riconoscibile l’immagine della donna. In altre, invece, la si vede perfettamente inserita all’interno della vita coniugale nelle vesti di una moglie equilibrata. Allo straniero, infine, si palesa con gli atteggiamenti sensuali e provocanti propri di una (ape) regina divoratrice di uomini.

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Da lei sola, madre generatrice, dipende la sopravvivenza dell’uomo nel regno (animale), mediante il suo sacrificio materno: gli uomini si avventano famelici sul suo corpo denudato, si nutrono della sua carcassa e rinascono sotto sembianze animali con le striature nere caratteristiche delle api, proprio come nel fenomeno della bugonia descritto nelle Georgiche del poeta Virgilio, in cui le api prendono vita dalla carcassa di un bue. L’ape nasce o ri-nasce come metafora della purezza dell’anima, dalla carcassa del corpo umano, ora superato.

La figura femminile, che si dona e così facendo genera nuova vita a partire dalla materia organica e inanimata, non è altro che la personificazione del cinema. Con il suo atto, influenza la costruzione, l’andamento e la stabilità fisica di ogni aspetto cinematografico. La sua forza vitale muove ogni elemento sia paesaggistico sia quelli inerenti ai soggetti che appunto si tramutano, ascendono a nuova forma. Il cinema, dunque, attraverso la sua immolazione, di cui lo spettatore è imperterrito testimone, rinasce, progredisce a un livello superiore, perisce per superarsi nella forma e nella sostanza. Kavanagh riesce ad esprimere magnificamente tale metamorfosi cinematografica, realizzando ottimamente una sua sceneggiatura di base superba, con grande padronanza del mezzo filmico e con una sorprendente giustapposizione degli elementi più sperimentali della pellicola. Egli con Animal Kingdom ha certamente raggiunto un nuovo livello di sperimentazione cinematografica destinato a fare scuola, da seguire rigorosamente per una continua innovazione del cinema.

Voto: ★★★★☆

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Drifting Cities

Drifting Cities (2017) – Michael Higgins ⇒ English version at the bottom

Con quest’ultimo film, Higgins si rivela essere uno dei registi più eclettici e sorprendenti della Experiment Film Society, capace di muoversi da una rappresentazione immediata, caotica e dinamica, tutta improntata all’improvvisazione, come quella di Stone Boat, a un’opera evanescente, inafferrabile, a lungo meditata come Drifting Cities.

Quest’ultimo è evanescente nell’accezione più ampia del termine: le due protagoniste della vicenda narrata, o meglio, manifestata, sono delineate da pensieri e ricordi che riaffiorano sotto forma di immagini eteree, bloccate e rese eterne in un limbo di reminiscenza mnemonica, in bilico tra mondi distanti e opposti: il presente e il passato, la vita e la morte. Ectoplasmi aleggiano in un mondo incolore, alla deriva, che sopravvive e vive solamente grazie a vecchi filmati che si ripetono come se l’unico modo per continuare a (r)esistere fosse quello di aggrapparsi al passato mediante il mezzo filmico. È il cinema che diventa mondo o è il mondo che diventa cinema? Che sia l’uno o l’altro, in Drifting Cities i due elementi si fondono a tal punto che risulta difficile distinguere il confine tra la realtà e il mezzo attraverso cui viene rappresentata, il film.

La struttura narrativa e visiva che si regge e si evolve su un piano prettamente meta-cinematografico costituisce il centro nevralgico dell’intera opera di Higgings, relegando sullo sfondo la vicenda storica, che appare quasi un mero pretesto per manifestare le potenzialità infinite del mezzo filmico: il cinema. Il film di Higgins, infatti, ha per protagonista indiscusso il cinema, il quale si manifesta sia come sostanza, nella sua essenza necessaria nell’atto di esistere, sia come forma (materiale), nell’atto di far esistere. La prima, riguardante una dimensione interna all’opera, è descritta da sequenze di immagini estatiche che esprimono la vicenda soprattutto sotto forma di una narrazione omodiegetica: volti diafani rimembrano lontane reminiscenze in lunghi silenzi estatici. La seconda, invece, che dovrebbe riguardare la dimensione esterna all’opera, quella meccanica e fisica costituita dagli strumenti che riproducono le immagini, di norma celati all’occhio dello spettatore, viene resa esplicita dal rumore della pellicola che accompagna la maggior parte dell’opera, dai filmati in cui fluiscono immagini di vita famigliare e, soprattutto, dai grandi schermi, come quello nella sequenza conclusiva in cui si assiste a una sorprendente operazione meta-cinematografica: il film stesso sembra essere proiettato su un grande pannello, che forma una specie di gigantesca video-installazione sulla quale scorrono i flussi mnemonici di un’esistenza passata o futura.

Higgins, in questo modo, rompe definitivamente il confine tra finzione e realtà: il mezzo combacia con il fine, scompare la distinzione tra il mondo reale esterno allo strumento filmico e quello “fittizio” che si trova al suo interno. Si assiste, così, ad una rinnovata vitalità rappresentata sull’enorme schermo dalle due protagoniste che si lasciano andare ad una sfrenata danza energica, segno che ormai tutto è cinema:

“Ricordiamo il mondo per il cinema. Possiamo ricreare o ricostruire i nostri ricordi attraverso il cinema. Possiamo anche reinventare i nostri ricordi. Il cinema tornerà al passato, al presente, al futuro… a adesso! Il cinema ci porterà al passato, al presente al futuro…a adesso! Cinema è esistere”.  (Century of Birthing, Lav Diaz, 2011)

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Voto: ★★★★☆

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