Cemetery

Cemetery (2019) – Carlos Casas

“Dall’inizio dei tempi, molte storie e leggende sono state raccontate sul mito del cimitero degli elefanti. Una montagna invalicabile e una giungla di grande possenza condurrebbe gli avventurieri dalle caverne ai fiumi sotterranei dove tutti gli elefanti vengono a morire un giorno. Alimentata da quelle favole, la sete dei bracconieri per il loro prezioso avorio non si è mai estinta. Tra i numerosi disastri di cui sono responsabili, sono riusciti a uccidere tutti gli elefanti tranne uno. Mentre la fine del loro mondo si avvicina, essi seguono le orme dell’unico elefante che può ancora guidarli in quel luogo segreto che nessuno ha mai visto se non nei sogni”.

Traendo ispirazione da questo mito, Carlos Casas dà vita ad un’opera sensoriale di incredibile potenza che, attraverso un’esplorazione visiva e sonora che culmina in una perfetta simbiosi tra immagine e suono, oltrepassa i confini dell’esperienza cinematografica.
Il regista spagnolo essendo un filmmaker e artista visivo, realizza un’opera tra il film documentario, cinema sperimentale e arte visiva-sonora, in cui l’attenzione estatica preponderante favorisce quel viaggio che ognuno può intraprendere dentro se stesso mentre guarda delle immagini e che, usando le stesse parole del regista, conduce in una dimensione al di fuori dello spazio contingente che porta alla creazione di uno stato mentale nell’esperienza audiovisiva, verso una sorta di illuminazione, tramite cui si giunge a quella scintilla originaria in grado di accendere l’immaginazione.

Il film è suddiviso in quattro capitoli.
Il primo è un lungo e lento segmento in cui i due protagonisti, l’elefante e il suo mahout, in mezzo alla foresta impervia dello Sri Lanka, si apprestano a compiere tutti i riti necessari ad intraprendere il loro ultimo viaggio verso il cimitero degli elefanti. Progressivamente si assiste alla scomparsa del grande pachiderma che lentamente diviene tutt’uno con la natura circostante: il suo occhio, la sua pelle, con le sfumature di grigio e verde, si (con)fondono con la corteccia degli enormi alberi della foresta pluviale, finché si può soltanto percepire la presenza dell’animale, che ormai è divenuto sempre più parte integrante della natura.
Il secondo capitolo segue invece il gruppo di bracconieri che è alle calcagna dei due e i cui membri, uno dopo l’altro, periscono misteriosamente, in quanto la natura non è lo sfondo passivo dell’azione umana, ma un’entità sensibile e pensate, le cui percezioni vengono trasmesse dalla materia filmica attraverso la commistione di elementi visivi e sonori.
Il terzo capitolo descrive il compimento del viaggio, l’arrivo nel mitico cimitero degli elefanti, che si manifesta attraverso una sorta di affresco in cui una moltitudine di immagini e suoni si sovrappongono in un’oscurità di trip allucinatori dai richiami primordiali. Qui ogni cosa si annulla, persino Il concetto di tempo perde ogni significato: il presente e il futuro si fondono divenendo un unicum che è al contempo presente e futuro.
L’ultimo capitolo costituisce invece l’epilogo che conduce ad una sconfinata natura permea di nova luce, sintomo di un azzeramento che è solo il punto di partenza di un nuovo ciclo, di un imperituro eterno ritorno.

Le quattro parti in cui si articola l’opera divengono così le tappe imprescindibili di un viaggio iniziatico, nonché di un’esperienza visiva e sonora straordinaria, quasi mistica, verso una comprensione cosmologica che trascende l’intelletto umano dello spazio e del tempo. Il cimitero degli elefanti diviene la fine stessa del mondo, un’immersione nell’oscurità assoluta, che però è solo una condizione transitoria, perché presto deve concedersi alla luce, ad un nuovo inizio: la morte allora non è altro che una forma di una possibile (ri)nascita.

Voto: ★★★★★

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Dyn Amo

Dyn Amo (1972) – Stephen Dwoskin

Dwoskin, a differenza dei cineasti della sua generazione come Michael Snow, non è mai stato interessato a rimuovere la figura umana dalle sue immagini per concentrasi sulle proprietà formali del medium cinematografico. Sebbene i suoi film contengano pochi dialoghi, pullulano tuttavia di persone, prevalentemente donne. La sua macchina fotografica non registra solo, ma guarda. Il suo è un cinema di sguardi in cui si verifica una interazione oculare tra i soggetti ripresi mentre si relazionano e tra questi e lo spettatore. Dwoskin, quindi, esplora il processo di questo tipo di relazioni mentre si sviluppano in  un periodo di tempo, seguendo le sensazioni di quei momenti piuttosto che affidarsi ad una narrazione ben definita.

“I was moved to considered how to turn the sense of words into images to speak with the eyes sort of, but mostly how to turn the internal process of thinking into visual representation”. – Stephen Dwoskin

Dyn Amo tra le sue opere più sensuali, ma anche la più terrificante, mostra la relazione che si instaura in uno strip club tra tre spogliarelliste e alcuni uomini, loro ammiratori. È basato su un’opera teatrale di Chris Wilkinson la cui narrativa originale viene completamente deflagrata per spostare il fulcro sulle emozioni del cast, che a quanto si legge, è anche il medesimo dell’opera teatrale. Emozioni che sono rivelate attraverso i primi e primissimi piani, tipici del cinema di Dwoskin. Essi sono  così potenti da coinvolgere in modo diretto lo spettatore, il quale è spesso impossibilitato a sottrarsi alle percezioni estreme con cui entra in contatto.

Le spogliarelliste si esibiscono una dopo l’altra sulle note prima di una musica pop e poi sul pazzesco tema martellante di Gavin Bryars. Le esibizioni sono però prive di entusiasmo, quasi meccaniche, poiché non sono pensate per essere convincenti o eccitanti. L’intento di Dwoskin, infatti, è quello di mostrare le donne per quello che sono, attrici che interpretano delle spogliarelliste, piuttosto che delle vere e proprie artiste burlesque e questo al fine di compiere una riflessione sul gioco di ruolo sessuale e sullo stereotipo: guardare dietro lo stereotipo per cercare di smascherare la maschera che le persone si portano.

La donna viene presentata come un oggetto sessuale, uno stereotipo per l’uomo voyeur, in netta contraddizione con i propri sentimenti: interpreta un ruolo e indossa una maschera cucitale addosso da altri, sebbene la disprezzi. Nel fare ciò Dwoskin non pone il focus sull’atto reale del sesso o sullo strip tease, ma sulla donna, sul suo volto e sul suo sguardo, sulla sua espressione, su come ella percepisce le proprie  azioni e le contraddizioni che ne derivano,  in modo da evidenziare la sua posizione di precarietà tra stereotipi e simboli di sfruttamento. Come dichiarato dall’autore, l’immagine convenzionale  dello strip tease è solo un mezzo attraverso il quale porre lo sguardo sulla personalità dell’individuo che recita quello stereotipo. Non ci si sofferma sugli atti dello strip tease, ma si riformula lo sguardo della donna  affinché essa possa cogliere la propria relazione con  quello che sta facendo e lo spettatore allo stesso tempo si possa inserire in tale relazione, che  non è più meramente esterna. Viene stabilita così una nuova relazione tra tutte le parti: telecamera, performer e lo spettatore,  al quale è richiesto un investimento personale, che è fondamentale affinché egli possa andare oltre l’atteso atteggiamento voyeuristico  e instaurare  invece una interazione attiva e immediata con ciò che vede.

La rappresentazione, nel finale, si evolve in un atto di efferata violenza : l’ultima ragazza viene completamente denudata, violata e stuprata. Usando le parole di Dwoskin, Dyn Amo si trasforma da uno spettacolo in una forma violenta di realtà o meglio in una (con)fusione tra ciò che è recitato e ciò che è non recitato. Un’escalation di brutalità e perversione umana che manifesta il gioco di potere sessuale, in cui la donna, inizialmente  presentata come oggetto sessuale, una forma di icona seducente con un potere iniziale, rimane alla fine  intrappolata in quella stessa icona, che non rappresenta ciò che sente nel suo profondo. Il lungo primo piano finale che mostra la donna in lacrime, fissare intensamente la telecamera come se chiedesse silenzioso aiuto allo spettatore è sintomatico della volontà di Dwoskin di insistere nell’iterazione tra lo spettatore e i personaggi ripresi in modo da spostare il film da una dimensione esterna in una interna di partecipazione attiva. Il cinema come esperienza segnante, Dyn Amo.

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Voto: ★★★★★

Phantom Islands

Phantom Islands (2018) – Rouzbeh Rashidi   ⇒ English version at the bottom

Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun e Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità. L’ultimo film del fondatore della EFS, Phantom Inslands, come il recente Inside del duo Le Cain/Langan, verte invece su un rapporto di coppia alla deriva, in disfacimento psichico e fisico. I due, che sono interpretati splendidamente dai registi Daniel Fawcette e Clara Pais, vagano come spiriti inquieti, in balia di passioni e tormenti, per le verdeggianti isole irlandesi alla ricerca di qualcosa: probabilmente di se stessi.

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Il dramma incentrato sulla crisi di coppia richiama subito Andrzej Żuławski (Possession in primis), che è anche uno degli autori a cui è dedicato il film, gli altri sono Jean Epstein e Marguerite Duras. Il riferimento al regista polacco appare lampante per la messa in scena del dramma di coppia che, come nel capolavoro di Zulawski, sfocia in un rapporto delirante che altera ogni regola del melodramma e costituisce solo un punto di partenza per affrontare temi più ampi e profondi. Sintomatico di quest’ultimo aspetto è l’approccio cinematografico adoperato da Rashidi, che è volutamente provocatorio e si concretizza in una riflessione metacinematografica in cui la finzione e le istanze documentaristiche finiscono per (con)fondersi, risultando difficile discernere i due elementi. Sono molte, infatti, le sequenze in cui i due protagonisti rompono la barriera cinematografica puntando una polaroid verso lo spettatore e sul regista, che viene fotografato mentre è in atto di riprendere, similmente alla Ullmann che, in una sequenza di Persona (capolavoro di Ingmar Bergman), fotografa il pubblico, delineando così la finzione della riproduzione filmica in modo da mostrare la materia della pellicola e nello stesso tempo andare oltre i limiti della rappresentazione cinematografica.

La macchina fotografica adoperata dalla coppia, inoltre, fa pensare al concetto di fotogenia come concepito da Jean Epstein (altro regista a cui è dedicato il film).

«Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica. […] Dico adesso: solo gli aspetti mobili del mondo, delle cose e delle anime, possono vedere il loro valore morale accresciuto dalla riproduzione cinematografica.» – Jean Epstein

Per Epstein la fotogenia, l’essenza stessa del cinema, è ciò che è capace di penetrare le cose e rivelarne l’anima attraverso la riproduzione cinematografica, il solo modo per conoscere e mostrare aspetti della realtà e, soprattutto, dell’uomo altrimenti inconoscibili. Per Epstein, inoltre, la bellezza fotogenica risiede nella manipolazione dell’immagine cinematografica in quanto è ciò che permette di provare percezioni e sensazioni che non sarebbero possibili sperimentare nella realtà. Rashidi, il quale sembra profondamente influenzato da questa formulazione teorica di Epstein, ha fatto della manipolazione cinematografica il carattere peculiare del suo cinema, basti pensare a Trailers o a Ten Years In The Sun e anche in questo film non è da meno. L’immagine è sottoposta a distorsioni e a fuori fuoco che ipnotizzano lo spettatore e lo mettono a contatto con i fantasmi che si portano dietro i due protagonisti nella loro peregrinazione per le isole: si ha la sensazione di perdersi con loro nei loro deliri e fantasticherie, entrare in simbiosi come loro con la natura delle isole, subire visioni sovrannaturali ed emozioni estreme e nel finale assistere finalmente a quel ricongiungimento, a cui sembrano mirare i due fin dall’inizio, con la loro parte più recondita, in sostanza con la loro anima, ma con la consapevolezza che tutto è il frutto di una riproduzione cinematografica, il solo mezzo appunto, come teorizzato da Epstein, in grado di accrescere e far provare nuove percezioni che nella realtà non si riuscirebbe a cogliere.

Rouzbeh Rashidi con Phantom Islands è artefice di un’altra opera incredibile che ridefinendo il concetto stesso di cinema è destinata a divenire un punto irremovibile nell’avant-garde contemporanea e futura.

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Voto: ★★★★☆

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Animal Kingdom

Animal Kingdom (2017) – Dean Kavanagh ⇒ English version at the bottom

Cinema come metamorfosi artistica: trasmutazione e alterazione della realtà, mutazione della materia e del corpo fisico, rinnovamento del mezzo filmico attraverso il suo superamento taumaturgico. Animal Kingdom, l’ultima opera del giovane e sorprendente regista Dean Kavanagh, si rivela essere la manifestazione ascensionale del nuovo cinema sperimentale irlandese che trova il suo punto di riferimento nella EFS e che, come il film manifesto “Trailers” del collega Rouzbeh Rashidi, esplora l’essenza latente ed inespressa del cinema. Film estremamente denso di simbolismo e di chiare allusioni meta-cinematografiche, si concretizza fin da subito in un viaggio occulto all’interno di una dimensione ancestrale, in bilico tra una realtà mistica e una profana e animale.

Uno straniero si addentra nei recessi più profondi di questo mondo, dove due enigmatiche figure sono alle prese con rituali e stregonerie dirette al superamento della condizione umana attraverso la trasmutazione in animale. L’estraneo, malamente cacciato dai due, è “salvato” da una figura muliebre, una ninfa melissa, emblema della rigenerazione e del ciclo eterno della vita costituita dall’alternarsi di morte e rinascita. La simbologia dell’ape, infatti, rievocato dalla donna che raffigura le virtù femminili di integrità, purezza e fertilità, sembra il nucleo attorno a cui il film si costruisce e si sviluppa quasi implicitamente. Non a caso, in una delle prime sequenze, si scorge uno sciame di api sotto lo sfarfallio del quale è riconoscibile l’immagine della donna. In altre, invece, la si vede perfettamente inserita all’interno della vita coniugale nelle vesti di una moglie equilibrata. Allo straniero, infine, si palesa con gli atteggiamenti sensuali e provocanti propri di una (ape) regina divoratrice di uomini.

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Da lei sola, madre generatrice, dipende la sopravvivenza dell’uomo nel regno (animale), mediante il suo sacrificio materno: gli uomini si avventano famelici sul suo corpo denudato, si nutrono della sua carcassa e rinascono sotto sembianze animali con le striature nere caratteristiche delle api, proprio come nel fenomeno della bugonia descritto nelle Georgiche del poeta Virgilio, in cui le api prendono vita dalla carcassa di un bue. L’ape nasce o ri-nasce come metafora della purezza dell’anima, dalla carcassa del corpo umano, ora superato.

La figura femminile, che si dona e così facendo genera nuova vita a partire dalla materia organica e inanimata, non è altro che la personificazione del cinema. Con il suo atto, influenza la costruzione, l’andamento e la stabilità fisica di ogni aspetto cinematografico. La sua forza vitale muove ogni elemento sia paesaggistico sia quelli inerenti ai soggetti che appunto si tramutano, ascendono a nuova forma. Il cinema, dunque, attraverso la sua immolazione, di cui lo spettatore è imperterrito testimone, rinasce, progredisce a un livello superiore, perisce per superarsi nella forma e nella sostanza. Kavanagh riesce ad esprimere magnificamente tale metamorfosi cinematografica, realizzando ottimamente una sua sceneggiatura di base superba, con grande padronanza del mezzo filmico e con una sorprendente giustapposizione degli elementi più sperimentali della pellicola. Egli con Animal Kingdom ha certamente raggiunto un nuovo livello di sperimentazione cinematografica destinato a fare scuola, da seguire rigorosamente per una continua innovazione del cinema.

Voto: ★★★★☆

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As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) – Jonas Mekas

Jonas Mekas, cineasta lituano, è tra le figure più importanti del panorama underground, tra coloro che hanno maggiormente promosso il cinema indipendente e sperimentale americano, fondatore della rivista Film Culture e co-fondatore della Anthology Film Archives, una vera e propria mecca dell’avanguardia artistica. Dopo aver trascorso parte della sua gioventù nei campi di lavoro nazisti, emigra dalla terra natia e ricopre la scena artistica di New York degli anni ‘50 e ‘60, dove conosce icone culturali come Andy Warhol e John Lenon, nonché i più grandi esponenti del movimento indipendente e d’avanguardia come Brakhage, Ken Jacobs, Hollis Frampton, Peter Kubelka e Paul Sharits, divenuti suoi amici. Nel 2000 realizza quello che, senza ombra di dubbio, rappresenta il suo opus magnum. As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty, infatti, è l’espressione più alta e completa di quel pensiero artistico e cinematografico, già manifestato in altre opere da Mekas, che si concretizza nel cine-diario:

All’inizio pensavo che ci fosse una profonda differenza fra il diario scritto che uno scrive la sera, e che è un processo riflessivo, e il diario filmato. Nel mio diario filmato pensavo di stare facendo qualcosa di diverso: sto impressionando su pellicola la vita, pezzi di vita, così come avveniva. Ma ho capito molto presto che non c’era grande differenza. Quando riprendo, sto anche riflettendo, invece io pensavo che stessi solo reagendo alla realtà. Non ho grande controllo sulla realtà, tutto è determinato dalla mia memoria, dal mio passato. Così, quel modo “diretto” di filmare è diventato anche un modo di riflettere.”

È proprio quello che il regista si prefigge con questo film, ovvero impressionare sulla celluloide frammenti di vita, “brief glimpses of beauty”, o per usare le sue stesse parole, “fragment of paradise”:

Un compleanno. I primi passi dei figli. Un temporale. Il suo matrimonio. Il battesimo e la comunione dei figli. I suoi viaggi in Francia, Italia, Spagna, Austria. Il rosso dei gerani. Un gatto che gioca. L’acqua di una pozzanghera sull’asfalto. Amici che condividono una bottiglia di vino nel parco. Una vecchia macchina da stampa. Dei fotografi ambulanti. Delle lezioni di ballo. Una partita a scacchi. Un venditore di hot dog in un giorno invernale. Una tenda che sventola nella brezza. Un pomeriggio sdraiato a letto. Uno stormo di uccelli che prende il volo. Un festival di strada. Un barbecue in cortile. Una lotta a palla di neve. Estati nel parco. La sua famiglia. Serate con gli amici…

Sono solo alcune delle “immagini di paradiso” che Mekas condivide nel suo monumentale documentario della durata di 5 ore. Il prodotto filmico, risultante dall’unione dei filmati casalinghi, sulla famiglia e sulla realtà quotidiana che il regista ha girato nell’arco di molti anni, potrebbe erroneamente far pensare che esso si concretizzi in una semplice raccolta di memorie di vita da condividere con famigliari e amici. In realtà Mekas è un grandissimo artista e come tale, al tavolo di montaggio, compie un’operazione cinematografica strabiliante, conferendo al prodotto le fattezze di un film, di una vera e propria opera d’arte. I frammenti di vita sono raccolti in splendidi vortici rapsodici. I pezzi di pellicola vengono tagliati, rimontati, sovrapposti. Le scene scorrono come in un fiume nostalgico, un flusso mnemonico casuale, privo di un nesso logico che non sia quello arbitrario del ricordo.  Il montaggio frenetico che dà l’impressione di stare navigando tra quei ricordi convulsi, viene attenuato dall’impiego di musica classica che accompagna ogni frammento di memoria e dalla voce soave di Mekas che interviene attraverso un commento audio o che disquisisce in voice-over sui più diversi argomenti, dalla sua concezione della vita a quella dell’arte e del cinema. In assenza di ciò, il film sarebbe muto.

Si potrebbe obbiettare che nel film di Mekas non succeda nulla di significativo. Lo stesso regista afferma che non vi è alcunché di spettacolare, nessun dramma, nessun climax, nessuna tensione, solamente delle attività quotidiane molto semplici e banali, solamente la vita, così com’è.

“You must by now come to a realization that what you are seeing is a sort of masterpiece of nothing. Nothing. You must have noticed my obsession with what’s considered as nothing, in cinema and life, nothing very important. We all look for those very important things… Very important things. And here there is nothing important, nothing.”

Non accade nulla, ma in realtà tutto sta accadendo: la vita si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. Mekas coglie la poesia e la bellezza che risiede in ciascuna di quelle azioni e imprime quei frangenti sulla pellicola sotto forma di uno sconvolgimento immaginifico, la cui sincerità e semplicità è tale da ipnotizzare chiunque si trovi a guardarli. Il film risulta essere la più grande celebrazione delle piccole cose, una celebrazione catartica della possibilità della vita e di tutta la bellezza che ne deriva, una dichiarazione di speranza e di ottimismo, una immagine della vita che non può che affascinare per l’amore che Mekas ha nei suoi confronti, per l’armonia dei sentimenti e dei pensieri, per la sua nobiltà e lucidità. Egli riesce a rendere estatici piccoli momenti, ricordandoci la loro importanza, come i primi passi di un bambino o la bellezza miracolosa di un albero in primavera che all’improvviso fiorisce. Mekas ci ricorda che il paradiso è qui e ora, in tutti quei piccoli momenti di vita.

Jonas Mekas è artefice di un’operazione cinematografica incredibile. Egli imprime la memoria sulla pellicola e con essa il tempo, essendo entrambi due facce della stessa medaglia, fusi indissolubilmente l’una nell’altro. Mekas, come direbbe Tarkovskij, “scolpisce il tempo” così da poter “riprodurre, quante volte si desidera, lo scorrere del tempo sullo schermo”. Egli coglie il tempo nel suo legame concreto e indissolubile con la materia stessa della realtà che lo circonda. Mekas ha recepito e interpretato mirabilmente la lezione del maestro russo, secondo il quale il cinema, più di ogni altra forma d’arte, amplia, arricchisce e concentra l’esperienza fattuale dell’uomo e, così facendo, non solo l’accresce, ma l’allunga, la eternizza.

Il cinema di Mekas è puro, vitale, intimo e personale (perché relativo alla sua dimensione privata), ma, allo stesso tempo, fortemente legato alla realtà vissuta che lo circonda, osservata con grande interesse e obiettività. Egli, in fin dei conti, descrive la realtà fattuale così come accade, quindi oggettivamente, ma la esprime attraverso una lente soggettiva che consiste nella visione profondamente umana della realtà che si manifesta nella sua opera e che sostanzialmente è anche quella di ogni altro uomo. Lo spettatore è chiamato a immergersi in questa realtà, nell’esperienza vitale di Mekas e, a sua volta, a contemplare la propria.

“L’arte esprime tutto ciò che vi è di migliore nell’uomo: La Speranza, la Fede, la Carità, la Bellezza, la Preghiera […] Essa è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.” – Andrej Tarkovskij

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty è racchiuso in queste parole di Andrej Tarkovskij. È un’opera artistica irripetibile che rispecchia l’autentico significato della vita, un bellissimo atto di amore nei confronti del cinema e della vita stessa.

Voto: ★★★★★

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Drifting Cities

Drifting Cities (2017) – Michael Higgins ⇒ English version at the bottom

Con quest’ultimo film, Higgins si rivela essere uno dei registi più eclettici e sorprendenti della Experiment Film Society, capace di muoversi da una rappresentazione immediata, caotica e dinamica, tutta improntata all’improvvisazione, come quella di Stone Boat, a un’opera evanescente, inafferrabile, a lungo meditata come Drifting Cities.

Quest’ultimo è evanescente nell’accezione più ampia del termine: le due protagoniste della vicenda narrata, o meglio, manifestata, sono delineate da pensieri e ricordi che riaffiorano sotto forma di immagini eteree, bloccate e rese eterne in un limbo di reminiscenza mnemonica, in bilico tra mondi distanti e opposti: il presente e il passato, la vita e la morte. Ectoplasmi aleggiano in un mondo incolore, alla deriva, che sopravvive e vive solamente grazie a vecchi filmati che si ripetono come se l’unico modo per continuare a (r)esistere fosse quello di aggrapparsi al passato mediante il mezzo filmico. È il cinema che diventa mondo o è il mondo che diventa cinema? Che sia l’uno o l’altro, in Drifting Cities i due elementi si fondono a tal punto che risulta difficile distinguere il confine tra la realtà e il mezzo attraverso cui viene rappresentata, il film.

La struttura narrativa e visiva che si regge e si evolve su un piano prettamente meta-cinematografico costituisce il centro nevralgico dell’intera opera di Higgings, relegando sullo sfondo la vicenda storica, che appare quasi un mero pretesto per manifestare le potenzialità infinite del mezzo filmico: il cinema. Il film di Higgins, infatti, ha per protagonista indiscusso il cinema, il quale si manifesta sia come sostanza, nella sua essenza necessaria nell’atto di esistere, sia come forma (materiale), nell’atto di far esistere. La prima, riguardante una dimensione interna all’opera, è descritta da sequenze di immagini estatiche che esprimono la vicenda soprattutto sotto forma di una narrazione omodiegetica: volti diafani rimembrano lontane reminiscenze in lunghi silenzi estatici. La seconda, invece, che dovrebbe riguardare la dimensione esterna all’opera, quella meccanica e fisica costituita dagli strumenti che riproducono le immagini, di norma celati all’occhio dello spettatore, viene resa esplicita dal rumore della pellicola che accompagna la maggior parte dell’opera, dai filmati in cui fluiscono immagini di vita famigliare e, soprattutto, dai grandi schermi, come quello nella sequenza conclusiva in cui si assiste a una sorprendente operazione meta-cinematografica: il film stesso sembra essere proiettato su un grande pannello, che forma una specie di gigantesca video-installazione sulla quale scorrono i flussi mnemonici di un’esistenza passata o futura.

Higgins, in questo modo, rompe definitivamente il confine tra finzione e realtà: il mezzo combacia con il fine, scompare la distinzione tra il mondo reale esterno allo strumento filmico e quello “fittizio” che si trova al suo interno. Si assiste, così, ad una rinnovata vitalità rappresentata sull’enorme schermo dalle due protagoniste che si lasciano andare ad una sfrenata danza energica, segno che ormai tutto è cinema:

“Ricordiamo il mondo per il cinema. Possiamo ricreare o ricostruire i nostri ricordi attraverso il cinema. Possiamo anche reinventare i nostri ricordi. Il cinema tornerà al passato, al presente, al futuro… a adesso! Il cinema ci porterà al passato, al presente al futuro…a adesso! Cinema è esistere”.  (Century of Birthing, Lav Diaz, 2011)

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Voto: ★★★★☆

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Night Awake

Night Awake (2016) – Sandy Ding

Sandy Ding è un artista da non perdere d’occhio. Con Night Awake realizza qualcosa di sconvolgente, che si insinua nella pelle, giungendo nel profondo del corpo fisico e psichico, fino a inibire ogni percezione sensoriale che non sia quella evocata dalla dimensione a-temporale e a-spaziale in cui viene condotto lo spettatore. L’assoggettamento percettivo è dovuto principalmente all’impressionante sonoro che accompagna ogni immagine della pellicola. Night Awake, infatti, potrebbe essere definito “film rumore”: il suono, di una potenza espressiva che va ben oltre le parole, funge da dialogo, altrimenti completamente assente.

La visione di Night Awake è un’esperienza unica, trascendentale, un viaggio, o meglio, un rituale magico che conduce a dio attraverso il risveglio del terzo occhio: andare oltre la forma visibile, oltre il simbolo. Il film stesso è un rituale occulto: Ding, infatti, prima di cominciare le riprese, ha eseguito una cerimonia per richiamare la divinità lunare nella sua macchina da presa, così da trasformarla da mero strumento a chiave spirituale in grado di dischiudere le vie interiori per cogliere il trascendentale, che sfugge al materiale. Le immagini del film scaturirebbero, così, direttamente dal dio selenico, emergendo come lampi improvvisi nell’oscurità della notte. Si presentano grezze, sfuggenti, imperfette, corporee perché ancorate all’apparenza del visibile, il quale offusca la verità del mondo, che si trova in balia delle tenebre, e ostacola il risveglio del terzo occhio con la menzogna dell’illusione della materia tangibile e corruttrice.

Il suono stridulo di un orologio e la sua conseguente frantumazione, con cui si apre il film, preannunciano il fine ultimo verso cui tende l’opera intera: distruggere la comprensione meccanizzata del tempo in modo da giungere in una dimensione permeata da un tempo assoluto, che annulla il tempo stesso e il suo concetto. Questa singolare a-temporalità che percorre la totalità dell’opera si manifesta anche nello spazio, caratterizzato da astrattezza e da immagini deteriorate, spesso inquietanti ed ermetiche, che sfuggono a una facile esegesi. Il bianco e nero e il continuo gioco di luce e ombra, invece, estremizzano il carattere indefinito delle immagini che, il più delle volte fuori fuoco, accentuano l’atmosfera sepolcrale di Night Awake. Il film si rivela essere un rituale di morte: la morte della materialità, della forma, morte come trasformazione finale e trasmigrazione verso un “oltre la morte”, l’eternità. Le immagini deteriorate che infestano l’opera, infatti, non sono rappresentative della decomposizione del cinema, come potrebbe sembrare a una prima interpretazione, ma al contrario, sono indice del suo rinnovamento, del percorso metafisico verso il suo risveglio: per rinascere bisogna morire. Night Awake, tramite la dissoluzione dell’immagine fotografica, che non può che limitarsi a descrivere il mondo nella sua concretezza, e un linguaggio arcano, ieratico e magico, giunge all’infinito, inafferrabile ed inesprimibile con la parola.

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Voto: ★★★★★

Hypnosis Display

Hypnosis Display (2014) – Paul Clipson   ⇒ English version at the bottom

Hypnosis Display, primo e unico lungometraggio di Paul Clipson, è un’opera estremamente ardua da analizzare, quasi indicibile. Tale ineffabilità, sia chiaro, non è dovuta all’asetticità del contenuto, ma al contrario, a una sua un’abbondanza, a un sovraccarico di informazioni visive che con la loro potenza tramortiscono lo spettatore conducendolo in uno stato di annichilamento estatico, di ipnosi da sogno. Questo assoggettamento visivo, se da un lato si mostra estenuante, dall’altro ridesta la mente, rafforza l’anima e scuote il corpo segnando in modo definitivo l’esistenza dello spettatore. Non si può rimanere indifferenti a Hypnosis Display, è un’opera che penetra in profondità nello spettatore, che tocca gli angoli più remoti della persona. Hypnosis Display va oltre ogni concezione di cinema pensata fino ad ora, ancorato a schemi e rappresentazioni precostituite: è rivoluzione cinematografica, distruzione e costruzione, rifondazione, libertà espressiva. Puro immaginario.

Ciò a cui assistiamo è un atto creativo.

Clipson dipinge la realtà, la nostra realtà, e lo fa ripercorrendo i sentieri primordiali che l’hanno edificata. Mostra per prime enormi distese d’acqua che si riversano su se stesse, rappresentazione della natura nella sua essenza più pura e originaria, potenza distruttiva e costitutiva. Continua poi, in primo piano, con gocce d’acqua sulle foglie, spostando rapidamente lo sguardo sui dettagli della vita vegetale, costituita da fiori, alberi e interi boschi, nella freschezza prima e decomposizione poi: la natura nell’atto di vivere e di esistere. Progressivamente all’ambientazione naturale si sostituisce quella artificiale. L’occhio filmico di Clipson si posa sulle costruzioni architettoniche, dalle scale ai ponti, fino a quelli più complessi come grattacieli mastodontici, che in tutta la loro perfezione geometrica tendono in alto, verso l’infinito del cielo. L’ambientazione urbanistica si fa sempre più preponderante, alla skyline interminabile si sovrappongono ingorghi stradali, pali dell’elettricità, rotaie, lampioni e strade. In questa danza osmotica di immagini metropolitane si intravedono figure umane che appaiono come ombre, presenze spettrali indefinite, che si muovono e si sfiorano in un ambiente imprigionante, opprimente. Allora non resta che fuggire per riacquistare la vitalità soppressa da una pienezza asettica che annichilisce. Questo è ciò che fa la ragazza (figura femminile presente anche in altre opere del regista come espressione della natura e della vita): evadere. Ella si allontana da una realtà urbana svuotata da un affollamento di non vita e si dirige in una spiaggia, lasciandosi trasportare dal richiamo vitale del mare e dalla luce salvifica del sole che irradia ogni cosa, risplende e trasfonde forza. Così, la ragazza riprende consistenza, gli occhi riacquistano la vi(s)ta, le labbra il colore, le mani il candore, i capelli la lucentezza.

Un processo di rinascita che fluisce attraverso una serie incessante di sovrapposizioni di immagini che in una dinamicità perturbante risucchiano magneticamente lo spettatore all’interno del film, rendendolo parte integrante dell’opera. Visioni eteree ripercorrono i sentieri della memoria, ridestano i ricordi della vita passata che la mente ha fissato nel profondo, in modo da innescare quell’emozione del nostalgico che produce la sensazione di essere bloccati in un momento eterno, tra il ricordo e il sogno. Una catarsi mnemonica. Uno stream of consciousness visivo. La cinepresa diviene l’estensione materiale dei sensi tramite la quale percepire e cogliere la realtà così come appare nei sogni, ricordi ed emozioni. Frammenti di un’esistenza remota emergono dalle profondità dell’inconscio in un perenne rammemorare attraverso uno sfarfallio di immagini, che si susseguono in una realtà metropolitana finalmente (ri)accesa dalle luci notturne delle automobili e dalle insegne luminose, per poi accartocciarsi su stesse fino ad implodere in un finale liberatorio che riporta alla distesa d’acqua primordiale, ora pacificata, da cui tutto ha avuto inizio.

Hypnosis Display è un’opera immaginifica che ridefinisce la grammatica filmica, riscrive il linguaggio cinematografico, così come concepito, divenendo fondante per il cinema. Esso segna il raggiungimento di tutto ciò a cui il cinema aspira e deve tendere nella sua essenza ontologica. Un punto fermo da cui partire.

Voto: ★★★★★

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Top 50 Favorite Avant-garde Films

  1. Hypnosis Display – Paul Clipson

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2. Central Bazaar – Stephen Dwoskin

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3. Trailers– Rouzbeh Rashidi

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4. Persona – Ingmar Bergman

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5. Dyn Amo – Stephen Dwoskin

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6. Sans Soleil – Chris Marker

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7. ‘Rameau’s Nephew’ by Diderot (Thanx to Dennis Young) by Wilma Schoen – Michael Snow

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8. Atlas – Antoine d’Agata

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9. Un lac – Philippe Grandrieux

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10. As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty – Jonas Mekas

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11. At Sea – Peter Hutton

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12. Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles – Chantal Akerman

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13.  TheHouse – Šarūnas Bartas

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14. Geistzeit – Sector 16

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15. Night Awake – Sandy Ding

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16. The Mirror – Andrej Tarkovskij

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17. La Vie Nouvelle – Philippe Grandrieux

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18. A Spell to Ward Off the Darkness – Ben Rivers, Ben Russell

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19. Le Joli Mai – Chris Marker

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20. The World – Takashi Makino

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21. Walden – Jonas Mekas

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22. The Sun and the Moon – Stephen Dwoskin

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23. Funeral Parade of Roses – Toshio Matsumoto

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24. Ten Years in the Sun – Rouzbeh Rashidi

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25. Death and Devil – Stephrn Dwoskin

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26. HSP: There Is No Escape From The Terrors Of The Mind – Rouzbeh Rashidi

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27. The Hart of London –  Jack Chambers

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28. The Earth Still Moves –  Pablo Chavarría Gutiérrez

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29. The Letters – Pablo Chavarría Gutiérrez

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30. Immanence Decostruction of Us – Rouzbeh Rashidi

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31. Les Rendez-vous d’Anna – Chantal Akerman

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32. A Married Woman –  Jean-Luc Godard

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33. Three Landscape – Peter Hutton

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34. He – Rouzbeh Rashidi

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35. Ashes and Snow – Gregory Colbert

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36. A Harbour Town – Dean Kavanagh

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37. Tenebrous City & Ill-Lighted Mortals – Rouzbeh Rashidi

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38. The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers – Ben Rivers

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39. Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives – Apichatpong Weerasethakul

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40. Enter the Void – Gaspar Noè

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41. La Jetèe –  Chris Marker

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42. Syndromes and a Century – Apichatpong Weerasethakul

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43. White Epilepsy – Philippe Grandrieux

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44. Drifting Cities – Michael Higgins

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45. L’éden et après – Alain Robbe-Grillet

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46. The Holy Mountain – Alejandro Jodorowsky

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47. Big Bang Love, Juvenile A – Takashi Miike

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48. Presents – Michael Sno

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49. Stone Boat Exhausted – Michael Higgins

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50. Adieu au langage – Jean-Luc Godard

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Geistzeit

Geistzeit (2012) – Sector 16 ⇒ English version at the bottom

Geistzeit, tradotto “Il tempo dello spirito”, sembra risentire fortemente dell’influenza dalla “Filosofia dello Spirito” di Hegel. I Sector 16, infatti, così come il filosofo tedesco che pone alla base della sua opera la triade costituita da spirito soggettivo, oggettivo e assoluto, danno vita a un film dalla struttura tripartita in cui descrivono il processo di individuazione e autocoscienza dello spirito che si incarna nella figura di bambino, adulto e mentore.

Il film si rivela essere la rappresentazione del viaggio che ogni individuo deve intraprendere, partendo dalla propria interiorità, per identificare le manifestazioni attraverso cui lo spirito avanza progressivamente: dalle forme più semplici e immediate di conoscenza si eleva a quelle più generali e complesse fino a raggiungere il vero sapere assoluto, in cui, mediante la piena esperienza di sé stesso, giunge alla conoscenza di ciò che è in sé stesso e per sé stesso.

Un itinerario ascendentale che prende forma a partire dalla prima sequenza: un pendio di una montagna ricoperta di neve si erge maestoso davanti ai nostri occhi, come un muro invalicabile, un ostacolo alla conoscenza; un bambino, figurazione della prima tappa formativa verso l’autocoscienza dello spirito, è intento a scalare tale “muro dell’ignoranza” e, con molta fatica, riesce a raggiungerne la sommità. Qui, dopo aver scavato una buca, vi si getta dentro, dando inizio a un vero e proprio processo di materializzazione dello spirito che, come nella più antica accezione, si manifesta nelle sembianze di un soffio animatore, una coltre di fumo, che avvolge tutta la realtà.

La figura del bambino cede allora il posto a quella dell’adulto, che emerge dalla coltre nebulosa che inarrestabile si propaga dappertutto, sommergendo ogni cosa. L’uomo, dalle fattezze deformi simili a quelle di un primitivo, manifestazione esteriore dell’ignoranza interiore, sembra alla ricerca di qualcosa e riempie un’anfora con l’acqua e la sostanza gassosa, come se stesse attingendo alla fonte della conoscenza necessaria per progredire, per comprendere e comprendersi. Un processo conoscitivo che si concretizza in una lenta discesa lungo una gradinata tonante in una camera avvolta nell’oscurità, rischiarata da una flebile luce soffusa. È un luogo di apprendimento, meditazione ed elevazione che conduce l’uomo in una dimensione che trascende la realtà, svelata attraverso uno sfarfallio di immagini immerse in tonalità di blu e rossi. Si giunge, infine, alla terza figura, meta ultima del processo gnoseologico: il mentore.

L’ambientazione in continua metamorfosi rispecchia la condizione dell’uomo che si eleva spiritualmente, fino all’autocoscienza: a paesaggi spogli, caratterizzati da distruzione, seguono, al progredire dello spirito, quelli naturali, ricolmi di una vegetazione rigogliosa e sorgenti e corsi d’acqua, espressioni di vita. Lo spirito si manifesta come principio vitale, animatore e anima del mondo, che crea e genera gli elementi stessi attraverso cui è possibile raggiungerlo, ovvero la realtà immediatamente percepibile, che costituisce la base di tutto il procedimento conoscitivo. Il contenuto è fautore del contenitore in cui risiede e attraverso cui si esprime.

I Sector 16 compiono un’operazione sbalorditiva: servendosi di un linguaggio sperimentale riescono a creare un’opera profondamente immersiva ed esoterica improntata a una ricerca introspettiva e allo stesso tempo universale che mira a divenire fondante per il mezzo filmico.

Voto: ★★★★★

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