Central Bazaar (1976) – Stephen Dwoskin ⇒ English version at the bottom
Dwoskin, servendosi di un costrutto tipicamente teatrale, realizza quella che è, senza dubbio, la sua opera più alta, esemplificazione di un cinema che non si lascia influenzare dalle convenzioni sociali, abitato da persone ed emozioni reali, non realistiche.
Degli sconosciuti vengono riuniti in una stanza e ripresi mentre danno sfogo liberamente alle loro fantasie più intime, privi di inibizioni sociali che appaiono, ormai, solo un flebile ricordo del mondo esterno. Il risultato è straordinario. La convivenza forzata in un ambiente così circoscritto consente ai protagonisti di lasciarsi trasportare dall’euforia che li assale prepotentemente: si assiste a due ore e mezza di tripudio sfrenato in cui uomini e donne, truccandosi e indossando abiti da cerimonia, mettono in scena i propri desideri più reconditi, che appaiono come delle esibizioni puerili, ma altamente sensuali e lussureggianti, pervase da grande erotismo.
Il film si concretizza in un’opera sperimentale visivamente perfetta, che esplora in modo ineguagliabile le interazioni emotive e fisiche che si instaurano tra individui liberi di esprimersi in completa autonomia. I personaggi coinvolti poco a poco si manifestano e, paradossalmente, appaiono più autentici in questa condizione anomala che non nella realtà: si riconoscono e trovano sé stessi nei costumi che indossano, si sentono liberi di esprimere la vitalità, l’esuberanza, la trasgressione represse grazie all’assenza delle barriere convenzionali e precostituite, come se avvenisse la rivelazione dell’io sopito a lungo nella comunità esterna.
Il film è caratterizzato dall’assenza di dialogo ad eccezione di una piccola parte iniziale in cui una delle donne racconta la fiaba de “i 3 porcellini”. Questa peculiarità non pregiudica in alcun modo la complessità dell’opera, ma al contrario la eleva, fornendo una visione sensoriale di incredibile potenza e straordinaria bellezza, enfatizzata ancor più dal sonoro, una musica stridente ed ossessiva che accompagna costantemente tutto il film. Dwoskin, inoltre, riesce ad adoperare la cinepresa in modo tale da carpire l’interiorità e i sentimenti più profondi dei personaggi senza che li esprimano con le parole, soffermandosi sui volti, le espressioni e gli sguardi naturali, privi di artificio, dei protagonisti attraverso un uso intelligente dello zoom ed una straordinaria fluidità dei movimenti della camera, che risulta essere un occhio più sensibile di quello umano. La cinepresa arriva, così, a ricoprire un ruolo più importante del semplice mezzo filmico, divenendo l’interprete essenziale per codificare volti, espressioni e sguardi con cui i personaggi si esprimono e comunicano la loro interiorità altrimenti indecifrabile.
Central Bazaar è la manifestazione del cinema come arte originaria, viva, indefinita ed inesplicabile con la ragione. Un’opera mastodontica libera da ogni tipo di preconcetto e finalità di ogni tipo che non sia prettamente artistica, celebrazione della settima arte.
Voto: ★★★★★
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