Phantom Islands (2018) – Rouzbeh Rashidi ⇒ English version at the bottom
Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun e Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità. L’ultimo film del fondatore della EFS, Phantom Inslands, come il recente Inside del duo Le Cain/Langan, verte invece su un rapporto di coppia alla deriva, in disfacimento psichico e fisico. I due, che sono interpretati splendidamente dai registi Daniel Fawcette e Clara Pais, vagano come spiriti inquieti, in balia di passioni e tormenti, per le verdeggianti isole irlandesi alla ricerca di qualcosa: probabilmente di se stessi.
Il dramma incentrato sulla crisi di coppia richiama subito Andrzej Żuławski (Possession in primis), che è anche uno degli autori a cui è dedicato il film, gli altri sono Jean Epstein e Marguerite Duras. Il riferimento al regista polacco appare lampante per la messa in scena del dramma di coppia che, come nel capolavoro di Zulawski, sfocia in un rapporto delirante che altera ogni regola del melodramma e costituisce solo un punto di partenza per affrontare temi più ampi e profondi. Sintomatico di quest’ultimo aspetto è l’approccio cinematografico adoperato da Rashidi, che è volutamente provocatorio e si concretizza in una riflessione metacinematografica in cui la finzione e le istanze documentaristiche finiscono per (con)fondersi, risultando difficile discernere i due elementi. Sono molte, infatti, le sequenze in cui i due protagonisti rompono la barriera cinematografica puntando una polaroid verso lo spettatore e sul regista, che viene fotografato mentre è in atto di riprendere, similmente alla Ullmann che, in una sequenza di Persona (capolavoro di Ingmar Bergman), fotografa il pubblico, delineando così la finzione della riproduzione filmica in modo da mostrare la materia della pellicola e nello stesso tempo andare oltre i limiti della rappresentazione cinematografica.
La macchina fotografica adoperata dalla coppia, inoltre, fa pensare al concetto di fotogenia come concepito da Jean Epstein (altro regista a cui è dedicato il film).
«Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica. […] Dico adesso: solo gli aspetti mobili del mondo, delle cose e delle anime, possono vedere il loro valore morale accresciuto dalla riproduzione cinematografica.» – Jean Epstein
Per Epstein la fotogenia, l’essenza stessa del cinema, è ciò che è capace di penetrare le cose e rivelarne l’anima attraverso la riproduzione cinematografica, il solo modo per conoscere e mostrare aspetti della realtà e, soprattutto, dell’uomo altrimenti inconoscibili. Per Epstein, inoltre, la bellezza fotogenica risiede nella manipolazione dell’immagine cinematografica in quanto è ciò che permette di provare percezioni e sensazioni che non sarebbero possibili sperimentare nella realtà. Rashidi, il quale sembra profondamente influenzato da questa formulazione teorica di Epstein, ha fatto della manipolazione cinematografica il carattere peculiare del suo cinema, basti pensare a Trailers o a Ten Years In The Sun e anche in questo film non è da meno. L’immagine è sottoposta a distorsioni e a fuori fuoco che ipnotizzano lo spettatore e lo mettono a contatto con i fantasmi che si portano dietro i due protagonisti nella loro peregrinazione per le isole: si ha la sensazione di perdersi con loro nei loro deliri e fantasticherie, entrare in simbiosi come loro con la natura delle isole, subire visioni sovrannaturali ed emozioni estreme e nel finale assistere finalmente a quel ricongiungimento, a cui sembrano mirare i due fin dall’inizio, con la loro parte più recondita, in sostanza con la loro anima, ma con la consapevolezza che tutto è il frutto di una riproduzione cinematografica, il solo mezzo appunto, come teorizzato da Epstein, in grado di accrescere e far provare nuove percezioni che nella realtà non si riuscirebbe a cogliere.
Rouzbeh Rashidi con Phantom Islands è artefice di un’altra opera incredibile che ridefinendo il concetto stesso di cinema è destinata a divenire un punto irremovibile nell’avant-garde contemporanea e futura.
Voto: ★★★★☆
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