Goodbye CP

Goodbye CP (1972) – Kazuo Hara

Goodbye CP, il primo lungometraggio di Hara, è un’opera devastante, di una potenza inaudita, profondamente vera e priva di ogni sorta di pietismo nei confronti dei soggetti ripresi: uomini e donne affetti da paralisi cerebrale.

Diversamente da quello che ci si aspetterebbe da un documentario che si occupa di persone emarginate, disabili reietti dalla società, il regista non le ritrae mentre svolgono con fatica le normali attività della vita quotidiana a causa della disabilità fisica e mentale, così da suscitare ammirazione e compassione, ma, rifiutando ogni genere di artificio, servendosi di una rappresentazione oggettiva, introduce lo spettatore direttamente nella loro difficoltosa esistenza. A tale scopo, non si sofferma sulla tragica condizione delle persone disabili, sulle quali grava un forte stigma, ma sulla modalità in cui si sono potute adattare a una struttura sociale complicata come quella giapponese.

Hara segue in modo diretto e quasi ossessivo alcune persone, tra cui Yokota Hiroshi in particolare, per tutta la durata del film. Per fornire una rappresentazione il più possibile completa e veritiera, non si trattiene dal ledere la loro intimità, come nelle interviste che trattano temi personali quali la sessualità o nella sequenza in cui, irrompendo nell’abitazione di Yokota Hiroshi genera un’accesa discussione coniugale: la moglie, anch’essa disabile, sostiene che Hara stia dipingendo il marito come un mostro e temendo che le riprese possano minare i tentativi della coppia di essere considerata parte integrante della società, minaccia il marito con il divorzio se avesse continuato la sua partecipazione al documentario. Yakota, invece, acconsente persino a mostrare il suo corpo nudo e deforme in una strada del centro preferendo gattonare per la città al posto di usare la sedia a rotelle. L’impatto che esercita questa visione risulta ancora maggiore se si pensa al contesto storico e culturale in cui è stata girata, il Giappone degli anni ‘70, quando ai disabili non era permesso lasciare il domicilio. Nonostante ciò, sono poche le scene che vedono Yokota a casa: per la maggior parte del tempo si trascina sulle ginocchia per le vie della città insieme a un gruppo di malati come lui, con i quali distribuisce volantini, parla al megafono e chiede l’elemosina, da vero e proprio attivista.

L’operazione cinematografica di Hara ha sollevato non poche controversie e questioni etiche sia per la modalità con cui effettua le riprese sia per la rappresentazione in sé, ma, in fin dei conti, non fa altro che documentare la realtà per quella che è, privandola di ogni velo con il quale la società ha voluto mascherarla, con la finalità di risvegliare la coscienza di coloro che sono inclini a stigmatizzare le persone colpite da qualsiasi tipo di handicap fisico o mentale. Goodbye CP, dunque, non è un’opera che incoraggia all’empatia, ma che mostra la cruda verità: lo spettatore riconosce in se stesso quella paura ancestrale che sorregge la struttura sociale e se ne sente responsabile. A chi non è mai capitato, infatti, di cambiare strada quando incontra un clochard o di dare l’elemosina a un mendicante? Gli intervistati in realtà rivelano che dietro a un gesto apparentemente caritatevole come l’elemosina si cela spesso il bisogno inconscio di placare lo stato di tensione generato dalla vista di un miserabile. Avendone la consapevolezza, i protagonisti del documentario muovono a pietà le persone “normali” e rivendicano il loro bisogno di essere accuditi. Hara, dunque, offre una visione incondizionata da ogni pregiudizio e con un occhio distaccato consente allo spettatore di vedere i soggetti ripresi per quello che sono: uomini miserabili, soli in una società estranea e ipocrita che, incapace di instaurare con loro un rapporto autentico, si limita a ostentare una filantropia intrisa di pietà e commiserazione esibita.

«How can i say? After all…in many levels…I require…Some form of protection. That’s the only way…I can survive. I could never be on my own. In that sense, that realization made me feel…totally empty. To be honest, I’m not sure…how I can move on. That’s how I feel.»

– Yokota Hiroshi

Goodbye CP, ancora oggi, si annovera tra i documentari più coraggiosi, penetranti, onesti e scandalizzanti mai realizzati.

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Voto: ★★★★☆

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As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (2000) – Jonas Mekas

Jonas Mekas, cineasta lituano, è tra le figure più importanti del panorama underground, tra coloro che hanno maggiormente promosso il cinema indipendente e sperimentale americano, fondatore della rivista Film Culture e co-fondatore della Anthology Film Archives, una vera e propria mecca dell’avanguardia artistica. Dopo aver trascorso parte della sua gioventù nei campi di lavoro nazisti, emigra dalla terra natia e ricopre la scena artistica di New York degli anni ‘50 e ‘60, dove conosce icone culturali come Andy Warhol e John Lenon, nonché i più grandi esponenti del movimento indipendente e d’avanguardia come Brakhage, Ken Jacobs, Hollis Frampton, Peter Kubelka e Paul Sharits, divenuti suoi amici. Nel 2000 realizza quello che, senza ombra di dubbio, rappresenta il suo opus magnum. As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty, infatti, è l’espressione più alta e completa di quel pensiero artistico e cinematografico, già manifestato in altre opere da Mekas, che si concretizza nel cine-diario:

All’inizio pensavo che ci fosse una profonda differenza fra il diario scritto che uno scrive la sera, e che è un processo riflessivo, e il diario filmato. Nel mio diario filmato pensavo di stare facendo qualcosa di diverso: sto impressionando su pellicola la vita, pezzi di vita, così come avveniva. Ma ho capito molto presto che non c’era grande differenza. Quando riprendo, sto anche riflettendo, invece io pensavo che stessi solo reagendo alla realtà. Non ho grande controllo sulla realtà, tutto è determinato dalla mia memoria, dal mio passato. Così, quel modo “diretto” di filmare è diventato anche un modo di riflettere.”

È proprio quello che il regista si prefigge con questo film, ovvero impressionare sulla celluloide frammenti di vita, “brief glimpses of beauty”, o per usare le sue stesse parole, “fragment of paradise”:

Un compleanno. I primi passi dei figli. Un temporale. Il suo matrimonio. Il battesimo e la comunione dei figli. I suoi viaggi in Francia, Italia, Spagna, Austria. Il rosso dei gerani. Un gatto che gioca. L’acqua di una pozzanghera sull’asfalto. Amici che condividono una bottiglia di vino nel parco. Una vecchia macchina da stampa. Dei fotografi ambulanti. Delle lezioni di ballo. Una partita a scacchi. Un venditore di hot dog in un giorno invernale. Una tenda che sventola nella brezza. Un pomeriggio sdraiato a letto. Uno stormo di uccelli che prende il volo. Un festival di strada. Un barbecue in cortile. Una lotta a palla di neve. Estati nel parco. La sua famiglia. Serate con gli amici…

Sono solo alcune delle “immagini di paradiso” che Mekas condivide nel suo monumentale documentario della durata di 5 ore. Il prodotto filmico, risultante dall’unione dei filmati casalinghi, sulla famiglia e sulla realtà quotidiana che il regista ha girato nell’arco di molti anni, potrebbe erroneamente far pensare che esso si concretizzi in una semplice raccolta di memorie di vita da condividere con famigliari e amici. In realtà Mekas è un grandissimo artista e come tale, al tavolo di montaggio, compie un’operazione cinematografica strabiliante, conferendo al prodotto le fattezze di un film, di una vera e propria opera d’arte. I frammenti di vita sono raccolti in splendidi vortici rapsodici. I pezzi di pellicola vengono tagliati, rimontati, sovrapposti. Le scene scorrono come in un fiume nostalgico, un flusso mnemonico casuale, privo di un nesso logico che non sia quello arbitrario del ricordo.  Il montaggio frenetico che dà l’impressione di stare navigando tra quei ricordi convulsi, viene attenuato dall’impiego di musica classica che accompagna ogni frammento di memoria e dalla voce soave di Mekas che interviene attraverso un commento audio o che disquisisce in voice-over sui più diversi argomenti, dalla sua concezione della vita a quella dell’arte e del cinema. In assenza di ciò, il film sarebbe muto.

Si potrebbe obbiettare che nel film di Mekas non succeda nulla di significativo. Lo stesso regista afferma che non vi è alcunché di spettacolare, nessun dramma, nessun climax, nessuna tensione, solamente delle attività quotidiane molto semplici e banali, solamente la vita, così com’è.

“You must by now come to a realization that what you are seeing is a sort of masterpiece of nothing. Nothing. You must have noticed my obsession with what’s considered as nothing, in cinema and life, nothing very important. We all look for those very important things… Very important things. And here there is nothing important, nothing.”

Non accade nulla, ma in realtà tutto sta accadendo: la vita si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. Mekas coglie la poesia e la bellezza che risiede in ciascuna di quelle azioni e imprime quei frangenti sulla pellicola sotto forma di uno sconvolgimento immaginifico, la cui sincerità e semplicità è tale da ipnotizzare chiunque si trovi a guardarli. Il film risulta essere la più grande celebrazione delle piccole cose, una celebrazione catartica della possibilità della vita e di tutta la bellezza che ne deriva, una dichiarazione di speranza e di ottimismo, una immagine della vita che non può che affascinare per l’amore che Mekas ha nei suoi confronti, per l’armonia dei sentimenti e dei pensieri, per la sua nobiltà e lucidità. Egli riesce a rendere estatici piccoli momenti, ricordandoci la loro importanza, come i primi passi di un bambino o la bellezza miracolosa di un albero in primavera che all’improvviso fiorisce. Mekas ci ricorda che il paradiso è qui e ora, in tutti quei piccoli momenti di vita.

Jonas Mekas è artefice di un’operazione cinematografica incredibile. Egli imprime la memoria sulla pellicola e con essa il tempo, essendo entrambi due facce della stessa medaglia, fusi indissolubilmente l’una nell’altro. Mekas, come direbbe Tarkovskij, “scolpisce il tempo” così da poter “riprodurre, quante volte si desidera, lo scorrere del tempo sullo schermo”. Egli coglie il tempo nel suo legame concreto e indissolubile con la materia stessa della realtà che lo circonda. Mekas ha recepito e interpretato mirabilmente la lezione del maestro russo, secondo il quale il cinema, più di ogni altra forma d’arte, amplia, arricchisce e concentra l’esperienza fattuale dell’uomo e, così facendo, non solo l’accresce, ma l’allunga, la eternizza.

Il cinema di Mekas è puro, vitale, intimo e personale (perché relativo alla sua dimensione privata), ma, allo stesso tempo, fortemente legato alla realtà vissuta che lo circonda, osservata con grande interesse e obiettività. Egli, in fin dei conti, descrive la realtà fattuale così come accade, quindi oggettivamente, ma la esprime attraverso una lente soggettiva che consiste nella visione profondamente umana della realtà che si manifesta nella sua opera e che sostanzialmente è anche quella di ogni altro uomo. Lo spettatore è chiamato a immergersi in questa realtà, nell’esperienza vitale di Mekas e, a sua volta, a contemplare la propria.

“L’arte esprime tutto ciò che vi è di migliore nell’uomo: La Speranza, la Fede, la Carità, la Bellezza, la Preghiera […] Essa è una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, una confessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.” – Andrej Tarkovskij

As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty è racchiuso in queste parole di Andrej Tarkovskij. È un’opera artistica irripetibile che rispecchia l’autentico significato della vita, un bellissimo atto di amore nei confronti del cinema e della vita stessa.

Voto: ★★★★★

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Paris est une fête – un film en 18 vagues

Paris est une fête – un film en 18 vagues (2017) – Sylvain George  ⇒ English version at the bottom

Sylvain George realizza un’opera cinematografica e, ancor prima, un’opera politica tra le più penetranti e conturbanti degli ultimi anni. Un film che trascende l’essenza del documentario concretizzandosi in un’esperienza poetica più che in una riproduzione filmica. Fortemente eversivo e intriso di uno sperimentalismo di straordinaria suggestione visiva, Paris est una fête è un caos apparente di immagini che, seppur frammentarie, arrivano dirette alla mente dell’osservatore, colpendolo.

Filmato quasi esclusivamente di notte a Parigi e nei suoi sobborghi vicini, tra il 2015 e 2016, documenta lo stato di tensione provocato dalla proposta di riforma del lavoro ad opera della legge nota come “Loi Travail”. Al susseguirsi di tali eventi si frappongono i racconti strazianti di un giovane migrante della Guinea di nome Mohamed e la tragica realtà in cui riversano i rifugiati, i quali, senza dimora sia a causa degli ingenti flussi migratori sia per la tendenza degli Stati ad attuare politiche sempre più restrittive, cercano di sopravvivere per la strada, tra gli scarti e i rifiuti, in prossimità di quartieri volutamente dimenticati e trascurati dallo Stato.

Questa è una politica che promuove quel processo di ghettizzazione che caratterizza le grandi città e che è uno dei principali promotori della paura e del terrore nei confronti del diverso. La diseguaglianza nella distribuzione si manifesta anche nella commemorazione delle vittime: al memoriale spoglio e abbandonato dei due giovani emigrati, Zyed Benna (17 anni) e Bouna Traoré (15 anni), morti per elettrocuzione nel tentativo di scappare dalla polizia, si contrappone  quello delle vittime degli attentati terroristici ornato da fiori e votivi in Place de la République.

Mohamed che racchiude in sé tutte le ondate migratorie provenienti dal Mediterraneo, racconta il suo viaggio dalla Guinea in Francia e soprattutto un episodio orribile, impresso nella sua mente come una cicatrice indelebile: il “sacrificio” di un suo compagno di viaggio, gettato in mare dai contrabbandieri per risparmiare sul carburante, davanti al quale si è sentito impotente a causa della fame e della sete.

Parigi è un mare burrascoso. Le ondate di manifestazioni, proteste e scontri con la polizia si infrangono una dopo l’altra sulle piazze e per i vicoli della capitale francese, tra le urla e gli slogan di chi ha deciso di lottare per il diritto al lavoro, per il diritto alla libertà di riunione e per i diritti dei rifugiati, di chi ha deciso di non subire le ingiustizie in silenzio, di chi ha deciso, ancora una volta, la rivoluzione. Le onde si manifestano talvolta in un silenzio estatico caratterizzato da sequenze evocative di grande impatto emotivo come quella in cui un paio di mani scure si esibisce in una coreografia poetica, carica di simbolismo: le mani si uniscono in preghiera, si estendono come artigli, danzano gioiosamente, si stringono in pugni che colpiscono l’aria con forza. A volte, invece, si manifestano in flutti dirompenti che, inarrestabili, si frantumano contro le schiere di poliziotti impegnati a reprimere un ideale che non può essere fermato con la sola forza bruta.

La Place de la République, mausoleo consacrato dai fiori per le vittime degli attacchi terroristici del 2015,  viene, così, profanato dagli scontri tra la polizia e il movimento Nuit debout, sotto lo sguardo inorridito della “Repubblica”, simboleggiata allegoricamente dalla statua di Marianna al centro della piazza, tradita e violata da false promesse e da un sistema politico che sembra distanziarsi come non mai dal proprio nome. Parigi è lo specchio di un’Europa in crisi, che non riesce a sostenere le instabilità interne dei singoli Stati e a fronteggiare un problema globale quale la questione dei migranti.

Sylvain George, attraverso un bianco e nero folgorante e un’estetica impressionante, compone queste due sfaccettature in un’opera composita, che si struttura in 18 onde, fornendoci un’esperienza visiva e riflessiva di grande potenza. Paris est une fête dimostra tutta la grandezza di un regista che si sta confermando come uno dei più interessanti e valenti del nuovo millennio.

Voto: ★★★★☆

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D’Amore si Vive

D’Amore si Vive (1983 ) – Silvano Agosti

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Reinvenimento di Lacrime represse.

“Chiedevo al mio ginecologo se avessi la vagina.”

Una madre novella, una donna devota alla propria castità, un bambino di 9 anni, una ragazza eroinomane con un esperienza da marchetta, un’anziana prostituita per tutta la vita (la quale si toglierà la vita poco dopo le riprese), una prostituta transessuale e una transessuale non operata che alleva in maniera molto poco igienica dei colombi, questi sono i nostri protagonisti.

Alla ricerca di una non-risposta, Silvano Agosti è un po’ l’ultimo Pasoliniano, non lo dico perché D’Amore si Vive possa essere accostato al celebre Comizi d’Amore, ricerche in mondi “simili” (’60 – ’80), ma documentari dal peso differente, inenarrabile resta la l’affondata lontananza intellettuale ed empatica fra i soggetti intervistati ed Agosti, perpetuo nello scavare sino alle fragilità più recondite, sino ad ottenere risposte intime e lacrimanti. Un paragone meno labile può essere quello con Jesus, You Know di Seidl, il quale però si accartoccia molto più nella teoria dialettica, lasciandoci alle sensazioni di vuotezza delle affermazioni (confessioni) isolate, il reticolato di Agosti ci (s)finisce parlando una lingua poco dinamica ed inteorizzabile, discorsi semplici composti da botte e risposte stridole, strappate ad aura di vergogna, di disagio di fronte alla cinepresa, ma questa è la natura delle personalità intervistate, l’umanità è debole, quindi destinata a (ri)trovarsi in condizioni imprecanti in ogni stagione della propria apertura comprensiva, perché questa “debolezza” si mostri Agosti è il primo ad usare unghie e denti, lì a scarnificare l’ermetismo infantile che funge da pensiero rincuorante e salvifico in quel dipinto di penombre che è l’esistenza di chi si concede “un’ intervista” per scongiurare passate piccole/grandi scelte rancorose.

Tratto da oltre nove ore di interviste prodotte per la TV e raccolte nella città di Parma, nel corso di due anni, il film si articola in varie sezioni dedicate ai vari aspetti e tematiche quali la condizione dei sentimenti e dei rapporti sessuali in contesti l’uno l’antitesi dell’altro, le realtà ideologiche delle fazioni emarginate come le prostitute e i transessuali in quel del “Fascio Convenzionale” dell’Italia dei primi anni ’80. (E di oggi, e di sempre).

Anna, l’anziana tratta di episodi del tipo “Un cliente mi chiese di cagargli in bocca” e delle sue balistiche qualità nel sesso orale, Gloria, transessuale di ritorno da Casablanca, racconta della sua passione per la Lirica, di come e di quanto la sua sessualità e il suo essere abbiano mutilato quel miraggio d’esistenza formale, benestante, di come non abbia mai potuto dedicarsi al canto e di come il suo appellativo le abbia precluso anche una lista di contratti umili, così da non potersi sottrarre alla prostituzione “Sono un Trans, noi facciamo questo”.

Potrei continuare a spoilerare vari momenti composti da questa sottintesa intimità saliente ma non ne colgo l’utilità palpabile, ciò che invece si coglie dai sopracitati contesti è per l’appunto la costante ammissione di una debolezza, di una ricerca senza armonie, di una riflessione sulla decadenza dell’umanità.

Avete presente quelle discussioni innocue, vacue, quelle che iniziano col porsi un quesito di poco conto ma che poi vengono man mano imbevute in argomentazioni filospinate sino a finire con l’interpretare il senso della vita? Ecco, questo tenta di essere D’Amore si Vive.

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Voto: ★★★★☆                                                                                           (di lukeglanton4)