Lazzaro felice

Lazzaro felice (2018) – Alice Rohrwacher

Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, Lazzaro felice è un’opera di rara bellezza che illustra la bontà umana in un mondo inumano. Quella di Lazzaro, un giovane contadino puro di cuore, sempre disponibile verso gli altri che vive insieme ad una cinquantina di contadini (tra cui bambini e anziani) a Inviolata, un piccolo villaggio rurale in una località italiana non precisata, dove il tempo si è fermato: lavorano tutti come mezzadri per la marchesa Alfonsina de Luna. Essi sono vittime de “il grande inganno”, mezzadri quando la mezzadria è stata già bandita. Lazzaro per la sua estrema disponibilità e purezza d’animo è l’ultimo della catena degli sfruttati, è sfruttato dagli sfruttati. Quando a seguito di uno scherzo orchestrato da Tancredi, figlio della marchesa, l’inganno è svelato e i contadini condotti dai carabinieri in città, un redivivo Lazzaro attraversa la barriera del tempo per giungere in una nuova realtà che però non pare tanto diversa da quella di Inviolata, dominata da malizia e inganno.

L’opera della Rohrwacher, seppur mantenendo una sua autonomia intrinseca, risente certamente dell’influenza poetica di grandi autori come Olmi e dei fratelli Taviani, entrambi (Paolo) scomparsi di recente, soprattutto nella prima parte ambientata in campagna, mentre concettualmente si rifà a Dostoevskij de “L’idiota” e a San Francesco. Lazzaro, infatti, come il principe Myškin, protagonista del romanzo dello scrittore russo, viene definito un’idiota per la sua incredibile bontà e misericordia nel suo senso più etimologico. Un incompreso sia in campagna che in città dove la libertà ritrovata dei contadini si estrinseca in ipocrisia e falsità. Lazzaro è un uomo impreparato alla vita, di un’ingenuità puerile, di una semplicità quasi disumana e al limite dell’irritante e la cui logica, dettata solo dal cuore, appare, in un mondo dove domina il più astuto, il più calcolatore e il più cinico, non in grado di sopravvivere. In tale contesto un uomo buono non è altro che un agnello sacrificale.

La Rohrwacher con Lazzaro felice mette in scena una prodigiosa fiaba che riesuma la bellezza, i sentimenti più puri e semplici (incarnati da Lazzaro) che, attraverso un costrutto tipico di quello che viene definito realismo magico, manifestano l’abbrutimento in cui pare irrimediabilmente caduto il nostro mondo. Lazzaro felice è un’opera che con la sua sconvolgente bellezza e spontaneità penetra e sciocca l’animo dello spettatore, che difficilmente potrà riprendersi da una tale miracolosa visione. Un film di cui il cinema italiano aveva estremamente bisogno, ma al quale forse non tutti sono ancora pronti, perché non tutti sono capaci di riconoscere la bellezza.

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Voto: ★★★★☆

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Psicopompo

Psicopompo (2015) – Morgan Menegazzo & Mariachiara Pernisa

Sono le opere come questa del duo Menegazzo/Pernisa che testimoniano quanto il cinema sia potente e infinito, forma d’arte che trascende ogni senso. La trascendenza, in particolare, caratterizza l’intera durata del cortometraggio. La pellicola, infatti, è la trasposizione cinematografica del pensiero secondo cui la morte, al pari della vita, non coincide con la fine di tutte le cose, ma con un passaggio di stato, una trasformazione, la trasmigrazione dell’anima verso la Luce Ultraterrena, ovvero verso l’Infinito. In particolare, è centrato sul viaggio di un’anima inquieta che viene assistita dallo Psicopompo, una figura mitologica avente il compito di condurre le anime dei defunti nell’Aldilà. Lo Psicopompo, non è altro che il film stesso, o più in generale il cinema, che divenendo allo stesso tempo traghetto e traghettatore, accompagna l’anima nel suo percorso verso l’Oltre, nel suo ineluttabile cambiamento di stato che qui si manifesta nella sua natura più traumatica e sconvolgente. Paura e affanno divengono fin da subito le componenti dominanti della pellicola ed esercitano prepotentemente la loro morsa disarmante tanto sullo spettatore quanto sullo spirito inquieto che sembra faticare molto a trovare la retta via. Appare intrappolato in un limbo, a metà tra due mondi agli antipodi: uno terreno, destinato inesorabilmente a sgretolarsi come le rocce che franano lentamente, il cui rumore si percepisce in sottofondo, e uno ultraterreno che, seppur destinato a durare per un’eternità rassicurante, genera turbamento per la sua natura oscura.

“Se dicessi <<là c’è un’uscita, da qualche parte c’è un’uscita>> il resto verrebbe da sé. E cosa aspetto, allora, per dirlo, di crederci? E che significa il resto? Devo rispondere? Cercare di rispondere? Oppure continuare come se non avessi chiesto niente?”

Queste le uniche parole che, pronunciate all’inizio del film da una voce ormai privata del suo corpo, esprimono la condizione di incertezza e turbamento in cui l’anima inquieta si trova per non essere in grado di recidere ogni legame con la vita terrena, o meglio, con il fantasma di questa che, pur essendo un’immagine sbiadita dell’originale, continua ad esercitare il suo fascino seducente, impedendogli di andare incontro alla luce che si intravede in fondo al tunnel. Il fulcro dell’intera opera, infatti, è il dissidio interiore che costringe a confrontarsi dolorosamente con le reminiscenze spettrali di un’esistenza da dimenticare per poter così finalmente rinascere nell’Eternità. I due registi, giocando sapientemente con la luce, i fuori fuoco e adoperando con grande maestria le dissolvenze, creano un’atmosfera tremendamente inquietante che permea tutta la durata del film e che riesce a descrivere con estrema nitidezza il percorso di metamorfosi in atto. Il processo così manifestato, con la potenza orrorifica delle immagini che lo caratterizza, sconvolge a fondo lo spettatore, il quale viene portato a sperimentare il delirio psichico a cui assiste e a cui non può sottrarsi perché lo Psicopompo non lascia scampo. Per questo, Psicopompo del duo Menegazzo-Pernisa è un’opera che, nonostante la sua brevità, lascia un solco profondo nell’animo e nella mente di chiunque lo guardi.

Voto: ★★★★☆