Top 10 Migliori Film del 2020

10. Funny Face – Tim Sutton

9. Possessor – Brandon Cronenberg

8. The Woman Who Ran – Hong Sang-soo

7. Genus Pan – Lav Diaz

6. Red Moon Tide – Lois Patiño

5. Liminal – Manuela De Laborde, Lav Diaz, Óscar Enríquez, Philippe Grandrieux

4. The Cloud in Her Room –  Zheng Lu Xinyuan

3. Homo Sapiens Project (200) (2000-2020) – Rouzbeh Rashidi

2. Days – Tsai Ming-liang

  1. City Hall –  Frederick Wiseman
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TOP 20 MIGLIORI FILM DEL 2018

  • 20. Ready Player One – Steven Spielberg
  • 19. Unsane – Steven Soderbergh
  • 18. The Trial – Sergei Loznitsa
  • 17. Capri-Revolution – Mario Martone
  • 16. The Man Who Killed Don Quixote – Terry Gilliam
  • 15. Your Face – Tsai Ming-liang
  • 14. Burning – Lee Chang-dong
  • 13. Zan – Shin’ya Tsukamoto
  • 12. Mandy – Panos Cosmatos
  • 11. Season of the Devil – Lav Diaz

TOP 10 + 1

10. Spider-Man: Into the Spider-Verse – Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman ex aequo Nuestro Tiempo – Carlos Reygadas

Spider-Man: Into the Spider-Verse

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Manifesto delle incredibili possibilità dell’animazione contemporanea, nonché probabilmente il miglior film dell’amichevole Spider-Man di quartiere sul grande schermo e di ogni sorta di cinecomics.

Nuestro Tiempo – Carlos Reygadas

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Dopo “Post tenebras lux” ancora tenebra(s) in questa sperimentazione (meta) cinematografica che è “Nuestro tiempo”, in cui gli alter ego di Reygadas e sua moglie si muovono in una dimensione di precaria intimità coniugale nel tentativo di preservare un’amore ormai consumato dal (loro) tempo. Ennesimo grande film del cineasta messicano nonostante si conceda spesso dei momenti di autocompiacimento.

9. Shoplifters – Hirokazu Kore-da

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Palma d’oro al festival di Cannes, shoplifter racconta con grande sincerità e intelligenza la quotidianità di una famiglia di “miserabili” che tenta di sbarcare il lunario come può con taccheggi e furtarelli, ma all’insegna dell’amore reciproco e dell’importanza della famiglia come legame etico e non di sangue.

8. Roma – Alfonso Cuarón

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Indubbiamente il culmine della carriera cinematografica di Cuaròn, Roma è un meraviglioso ritratto intimo e toccante di una famiglia borghese messicana alla deriva nei primi anni settanta, dal sapore fortemente autobiografico

7. Lazaro Felice – Alice Rohrwacher

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Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, Lazzaro felice è un’opera di rara bellezza che illustra la bontà umana in un mondo inumano… continua

6. An Elephant Sitting Still – Hu Bo

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Il lasciato del regista Hu bo, che al termine del montaggio si è tolto la vita, è un’opera che riflette probabilmente la visione del mondo del suo autore: un modo spietato, crudele e privo di alcuna compassione per individui come i quattro protagonisti che, ciascuno segnato dalla vita per un motivo diverso, sembrano ancora legati a questo mondo dal solo desiderio di vedere, a Manzhouli, un elefante che se ne sta tutto il giorno immobile, seduto, come se il resto del mondo non esistesse.

5. Phantom Islands – Rouzbeh Rashidi

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Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità…continua

4. Suspiria – Luca Guadagnino

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Guadagnino decostruisce magnificamente l’originale, concependo di fatto un nuovo film, più vicino per atmosfera e contenuti socio-politico a Fassbinder e Zulawski. Tale operazione filmica paga, perché questo Suspiria è un’opera sorprendente che nella fredda e grigia Berlino divisa del 1977, in sei atti, inscena attraverso delle superbe coreografie di danza e di morte il dispiegarsi del male sotto le sembianze di una candida ragazza americana che, da figlia alla ricerca di una maternità idolatrata, si erge a Mater Suspiriorum.

3. The House That Jack Built – Lars von Trier

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Lars von Trier torna a Cannes probabilmente con la sua opera più tremenda e scioccante, ma anche la più personale. Infatti non è difficile riconoscere nel protagonista Jack, un serial killer sociopatico costantemente in bilico tra la follia e rari momenti di lucidità, che concepisce l’omicidio come atto creativo o meglio opera d’arte, lo stesso Lars, autore da sempre tormentato e al centro di continue critiche, anche se in realtà non fa altro che perseguire l’arte attraverso il cinema. The House That Jack Built segna decisamente un ritorno in grande stile di Lars, reso ancora più sontuoso dal meraviglioso finale surreale del film.

2. Hotel by the River – Hong Sang-soo

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Hong Sang-soo realizza un’opera di rara bellezza, poetica e annichilente allo stesso tempo, riflettendo come non mai sulla morte, o meglio sul sentimento della morte di cui è portatore l’anziano poeta Younghwan e sul distacco dai legami familiari (tra padre e figli) e d’amore, come quello della giovane donna tradita che si crogiola con la comprensione di un’amica, nel suo dolore. Tutto viene rappresentato, con un magnifico bianco e nero, nei pressi di un solitario hotel lungo il fiume Han, in un’atmosfera di sospensione temporale evocata da una sconfinata distesa innevata. Indubbiamente il film più bello del 2018.

1. Le livre d’image – Jean-Luc Godard

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L’ultima opera dell’intramontabile regista francese è un grande film-saggio sul nostro mondo descritto attraverso l’immagine libera dalla parola, cioè con un immagine non più in rapporto dialettico con la parola e il suo significato. Godard ri-mescola immagini tratte da altri film a digitalizzazioni di altre con effetti di straniamento provocato dall’uso di musica classica fermata bruscamente, di scritte sovraimpresse, dissolvenze in nero e commenti in voice-over, affermando così l’arte cinematografica come installazione visiva più che come narrazione.

+ 1. The Other Side Of The Wind – Orson Welles

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Phantom Islands

Phantom Islands (2018) – Rouzbeh Rashidi   ⇒ English version at the bottom

Il mio 2018 cinematografico non poteva che esordire con Rouzbeh Rashidi, tra gli autori sperimentali più capaci e interessanti in circolazione e già presente qui sul blog con tre opere: He, che affronta in modo assai originale il tema del suicidio; Ten Years In the Sun e Trailers che portano avanti un nuovo personale linguaggio filmico del regista operando un’indagine sulla natura più profonda del cinema e delle sue infinite potenzialità. L’ultimo film del fondatore della EFS, Phantom Inslands, come il recente Inside del duo Le Cain/Langan, verte invece su un rapporto di coppia alla deriva, in disfacimento psichico e fisico. I due, che sono interpretati splendidamente dai registi Daniel Fawcette e Clara Pais, vagano come spiriti inquieti, in balia di passioni e tormenti, per le verdeggianti isole irlandesi alla ricerca di qualcosa: probabilmente di se stessi.

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Il dramma incentrato sulla crisi di coppia richiama subito Andrzej Żuławski (Possession in primis), che è anche uno degli autori a cui è dedicato il film, gli altri sono Jean Epstein e Marguerite Duras. Il riferimento al regista polacco appare lampante per la messa in scena del dramma di coppia che, come nel capolavoro di Zulawski, sfocia in un rapporto delirante che altera ogni regola del melodramma e costituisce solo un punto di partenza per affrontare temi più ampi e profondi. Sintomatico di quest’ultimo aspetto è l’approccio cinematografico adoperato da Rashidi, che è volutamente provocatorio e si concretizza in una riflessione metacinematografica in cui la finzione e le istanze documentaristiche finiscono per (con)fondersi, risultando difficile discernere i due elementi. Sono molte, infatti, le sequenze in cui i due protagonisti rompono la barriera cinematografica puntando una polaroid verso lo spettatore e sul regista, che viene fotografato mentre è in atto di riprendere, similmente alla Ullmann che, in una sequenza di Persona (capolavoro di Ingmar Bergman), fotografa il pubblico, delineando così la finzione della riproduzione filmica in modo da mostrare la materia della pellicola e nello stesso tempo andare oltre i limiti della rappresentazione cinematografica.

La macchina fotografica adoperata dalla coppia, inoltre, fa pensare al concetto di fotogenia come concepito da Jean Epstein (altro regista a cui è dedicato il film).

«Che cos’è la fotogenia? Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica. […] Dico adesso: solo gli aspetti mobili del mondo, delle cose e delle anime, possono vedere il loro valore morale accresciuto dalla riproduzione cinematografica.» – Jean Epstein

Per Epstein la fotogenia, l’essenza stessa del cinema, è ciò che è capace di penetrare le cose e rivelarne l’anima attraverso la riproduzione cinematografica, il solo modo per conoscere e mostrare aspetti della realtà e, soprattutto, dell’uomo altrimenti inconoscibili. Per Epstein, inoltre, la bellezza fotogenica risiede nella manipolazione dell’immagine cinematografica in quanto è ciò che permette di provare percezioni e sensazioni che non sarebbero possibili sperimentare nella realtà. Rashidi, il quale sembra profondamente influenzato da questa formulazione teorica di Epstein, ha fatto della manipolazione cinematografica il carattere peculiare del suo cinema, basti pensare a Trailers o a Ten Years In The Sun e anche in questo film non è da meno. L’immagine è sottoposta a distorsioni e a fuori fuoco che ipnotizzano lo spettatore e lo mettono a contatto con i fantasmi che si portano dietro i due protagonisti nella loro peregrinazione per le isole: si ha la sensazione di perdersi con loro nei loro deliri e fantasticherie, entrare in simbiosi come loro con la natura delle isole, subire visioni sovrannaturali ed emozioni estreme e nel finale assistere finalmente a quel ricongiungimento, a cui sembrano mirare i due fin dall’inizio, con la loro parte più recondita, in sostanza con la loro anima, ma con la consapevolezza che tutto è il frutto di una riproduzione cinematografica, il solo mezzo appunto, come teorizzato da Epstein, in grado di accrescere e far provare nuove percezioni che nella realtà non si riuscirebbe a cogliere.

Rouzbeh Rashidi con Phantom Islands è artefice di un’altra opera incredibile che ridefinendo il concetto stesso di cinema è destinata a divenire un punto irremovibile nell’avant-garde contemporanea e futura.

Phantom Islands 3

Voto: ★★★★☆

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Ten Years In The Sun

Ten Years In The Sun (2015) – Rouzbeh Rashidi  ⇒ English version at the bottom

Ten Years in The Sun, come il successivo Trailers, è tra le opere cinematografiche più importanti del nuovo millennio, tra quelle che in qualche modo hanno reinventato il concetto di film, codificando un linguaggio espressivo che trascende quello cinematografico. Ciò si concretizza soprattutto in Trailers, che è fondante di un cinema nuovo, inespresso fino a questo momento, che travalica ogni tipo di confine filmico, ma in misura relativamente minore si può affermare lo stesso di Ten Years, che, sebbene costituisca in un certo senso un tentativo di approdare a Trailers, è un’opera che mantiene rigorosamente una sua autonomia precostituita. Ten Years In The Sun, infatti, per quanto sia legato profondamente all’opera successiva, costituisce il punto d’inizio essenziale per cogliere appieno l’innovativo percorso cinematografico teorizzato da Rashidi, nel tentativo di far percepire il cinema in tutte le sue forme e di farne cogliere, così, la sua essenza più profonda.

Per la riuscita dell’intento, necessita di un’ampia cultura cinematografica che certamente Rashidi, da grande cinefilo qual è, possiede: la materia pregressa è la fonte inesorabile da cui attingere per plasmarne una nuova. Rashidi, non diversamente da un artigiano, attraverso un processo di selezione e trasformazione del materiale, trae dallo scibile la sostanza necessaria per dare vita ad un’opera visiva e uditiva di straordinaria efficacia che racchiude in sé una grande varietà di forme e generi: dallo sci-fi all’horror, dal grottesco al mystery e dall’erotico fino al pornografico, il tutto amalgamato con una grande inventiva sperimentale. Sperimentare la sperimentazione: in ciò si concretizza Ten Years In The Sun. Un sostrato cinematografico che illumina e trascina lo spettatore con la molteplicità di formule espressive che lo contraddistinguono.

Nonostante si manifesti attraverso una sostanziale rimozione e rottura di qualsiasi struttura narrativa tradizionale, la pellicola è in grado di suscitare reazioni ed emozioni e di stimolare lo spettatore grazie a una metodica giustapposizione di immagini, luci, suoni, ritmo e un grande montaggio sapientemente adoperati. Un’opera che, perciò, non può essere compresa (forse non bisogna comprenderla) senza un grande sforzo da parte del pubblico, il quale è invitato ad afferrarla con i sensi più che con la mente, in modo da poter sperimentare il film e, così, il cinema.

Il soggetto principale (o l’unico) di Ten Years In The Sun, infatti, è il cinema stesso che si palesa come un’entità escatologica che sovrasta e comprende ogni cosa: da globi planetari che lievitano sopra a paesaggi in continua mutazione, a individui enigmatici che si muovono su diversi piani spazio temporali in balia di un qualche oscuro disegno, fino a Rashidi stesso che nelle vesti di un ambiguo investigatore vaga per campi erbosi come alla ricerca di qualcosa o di qualcuno: potrebbe trattarsi del cinema a cui ha dato vita, o meglio, a cui si è ricongiunto grazie all’esperienza filmica di Ten Years In The Sun e a cui lo spettatore è chiamato a partecipare facendosi attrarre dal suo fascino perturbante.

Che cos’è il cinema? Sicuramente è rappresentato da Ten Years In The Sun, epifania cinematografica e sublimazione extrasensoriale ed extra-corporea, il cui apogeo si manifesta nella psichedelica sequenza finale dove un uomo completamente nudo è in atto di subire una trasfigurazione cosmica o cosmologica, (con)fondendosi così con quell’entità imperitura: il cinema.

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Voto: ★★★★☆

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He

He (2012) – Rouzebeh Rashidi     ⇒ English version at the bottom

Tra i film meglio riusciti di Rashidi troviamo “He”, che affronta in modo estremamente originale il tema del suicidio fornendoci un ritratto misterioso e inquietante di un uomo intenzionato a togliersi la vita. Non ci si potrebbe aspettare diversamente da un regista come Rashidi, naturalmente predisposto alla sperimentazione, sempre alla ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico, rifiutando i suoi canoni.

La vicenda viene per lo più narrata dal protagonista, un inquietante James Devereaux, mediante dei monologhi e, successivamente, dei dialoghi con un amico a cui rivela la propria intenzione. Tali sequenze, che sono il fulcro dell’intera opera, sono alternate da delle scene in cui il protagonista vaga in alcuni edifici vuoti, ha dei comportamenti che appaiono senza senso, come tirare a calci gli oggetti, usare l’estintore impropriamente, o cercare qualcosa indossando una strana tuta, simile a quella antiradiazioni. Una simile struttura narrativa non è di facile comprensione, risultando arduo distinguere ciò che sta realmente accadendo o che è accaduto in passato da quello che potrebbe essere, invece, un viaggio onirico all’interno della mente del protagonista, in cui realtà e sogno sono tutt’uno, imprescindibili.

La vicenda del protagonista appare annessa a quella di una coppia gravata da un serio problema: il marito, completamente insensibile, si trova in un misterioso stato catatonico, lontano dalla realtà percepibile dalla moglie che non riesce in alcun modo a fare breccia nel muro impenetrabile innalzato dal suo compagno. Tra loro regna l’assenza totale di comunicazione, sia fisica che verbale. La connessione tra le due vicende è evidente, ma non chiara. Infatti, le sequenze che vedono i due coniugi per protagonisti rimandano a quelle che si alternano ai monologhi dell’uomo intenzionato al suicidio, in particolare a quelle in cui indossa la strana tuta. I due soggetti sono afflitti dallo stesso male, ovvero la repulsione per la vita, anche se la modalità con cui si manifesta è differente, quasi opposta: uno contempla il suicidio mediante la parola, l’altro attraverso un silenzio estatico che mostra la sua criptica volontà di sciogliere ogni legame con l’esistenza sensoriale e, di conseguenza, con la vita. I due, dunque, appaiono contrastanti e uguali allo stesso tempo, ed è proprio quest’ultimo carattere a prevalere, suggerendo addirittura l’idea che siano in realtà la stessa persona in un momento differente del processo che conduce alla decisione di togliersi la vita.

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La tecnica della regia è quella sperimentale propria del cinema di Rashidi, in cui il montaggio assume una rilevanza decisiva, così come il suono e l’immagine curata nei minimi dettagli con un uso strepitoso del colore.

Un’opera di inaudita bellezza, che non teme il confronto con film di alto livello che trattano lo stesso argomento, in primis “Il diavolo probabilmente” di Robert Bresson. Rashidi si conferma come uno dei migliori registi d’avanguardia degli ultimi tempi, in grado di esprimere, grazie al suo modo personale di fare cinema che mette in continua discussione le leggi su cui si fonda il cinema stesso, anche temi delicati come il suicidio.

Voto: ★★★★☆

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TRAILERS

Trailers (2016) – Rouzbeh Rashidi     —> English Version

Una sala di cinema vuota, tante poltroncine rosse, nessuno spettatore seduto. Un uomo attraversa la sala: è il regista, Rashidi, che con il suo passaggio sembra dare inizio allo spettacolo. Lo schermo davanti alle poltroncine prende vita e comincia un lungo viaggio alla scoperta del mondo, alla scoperta di noi, di ciò che eravamo, siamo e saremo.

Rashidi è il demiurgo di una realtà cinematografica, quindi fittizia, che appare più reale della realtà stessa: attraverso lo sguardo invisibile di un’entità aliena, esterna al mondo rappresentato o meglio, appositamente edificato, assistiamo a un’epopea sull’evoluzione-involuzione umana che è al centro di un universo in continua costituzione e disgregazione. L’universo viene raffigurato, nella sua essenza cosmica, sullo schermo della sala e costituisce la cornice fattuale delle rappresentazioni teatrali che si svolgono davanti ad esso, sul palcoscenico: un gruppo di personaggi dà vita a misteriosi rituali sessuali in balia di istinti primordiali privi di ogni tipo di inibizione, sospesi in un tempo e in uno spazio indicibile, mentre sullo schermo, in parallelo, viene ripercorso lo sviluppo progressivo della terra insieme alle specie animali che l’hanno popolata in passato, come i dinosauri, e quelli che la popolano tutt’ora. Lo schermo davanti al quale si svolge questo oscuro spettacolo, rappresentativo di ciò che è divenuta l’umanità, rimane lo spazio circoscritto a tutto ciò che non è umano, come per sottolineare che ciò a cui stiamo assistendo non è solo finzione, non è solo cinema, ma qualcosa che trascende il cinema stesso, la nostra realtà.

Rashidi porta avanti la sua indagine personale sulla natura del cinema in tutte le sue forme e potenzialità, operazione già perseguita nei film precedenti nel tentativo di coglierne l’essenza più profonda. Qui sembra proprio riuscire nel suo intento: servendosi di immagini potenti, di una tecnica di montaggio e regia perfetta coadiuvata dal sonoro, riesce a coglierne il cuore e a spingersi oltre riformulando il concetto stesso di cinema. L’arte cinematografica viene reinterpretata dal regista come un processo di continua decomposizione e aggregazione di tutti i suoi elementi, così come il cataclisma di portata universale che con la sua potenza distruttiva non risparmia neppure quei pochi strani personaggi, simbolo di un’umanità ormai alla deriva.

Diverse scene del film riguardano l’evolversi di un’ambigua relazione tra un uomo e una donna: in un primo momento la donna sembra sedurre l’uomo con dei movimenti sinuosi e sensuali del proprio corpo, per poi prendere sopravvento su questo, sottomettendolo e sottoponendolo a sevizie fisiche sempre più degradanti e opprimenti. La donna richiama il fascino che la settima arte esercita sull’uomo, il quale, incapace di resistere alle sue lusinghe, finisce per essere soggiogato ad essa facilmente. La maggior parte degli attori che subiscono l’umiliazione della sottomissione, infatti, sono registi. In una scena, lo stesso Rashidi viene manovrato come un burattino dalla donna: il cinema domina, così, colui che per antonomasia è il suo dominatore.

Cinema come specchio dell’umanità, un’umanità sempre più degradata in costante involuzione, che sottomette, umilia e deride l’uomo stesso. Ciò porta il cinema a essere uno strumento di sottomissione e umiliazione: l’uomo viene prima sedotto e poi sottomesso dal cinema in persona. La realtà e il cinema si confondono: il cinema si conforma alla realtà o la realtà al cinema?

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Voto: ★★★★★