Stray Dogs

Stray Dogs (2013) – Tsai Ming-liang

“Le rovine fanno da sfondo a tutto il film e sono popolate di cani e di persone. Le persone si comportano come cani e i cani come persone. Sono cani liberi e anche le persone sono libere. Non hanno nulla. E noi allora? Cosa possediamo? Siamo certi di possedere qualcosa? Forse tutti noi non siamo altro che cani randagi.”

– Tsai Ming-liang –

In Stray Dogs c’è una perenne consolazione che (si) ritarda, che resta fuoricampo. È un film sull’insostituibilità del vivere, delle mancanze originali. La vita non arriva, la lacuna fondante viene sostituita da dei feticci provvisori ed evanescenti, che con sterile meticolosità tentano di colmare i vuoti affettivi dei protagonisti. Sono esistenze irrecuperabili, che quindi hanno cessato di esistere, e si palesano come riflessi di una realtà irreparabile, passata. Proiezioni post-apocalittiche, spente, senza alcuna spinta propulsiva che gli permetterebbe di sparire e liberarsi una volta per tutte. Sì, perché in Stray Dogs non ci sono altre occasioni, poiché tutto è già finito, crollato, sicché i personaggi rimangono in un abisso ciclico, ovvero in una palude antropologicamente randagizzata, nella quale si mangia, si dorme e si piscia, in cui la catastrofe pare annullarsi costantemente, risultando, in verità, un eco debole, uno sparuto riflesso di un disastro già compiuto, che annichilisce quindi la propria individuale essenza (s)travolgente, sfaldando il proprio determinante peso occupante, che da concretizzante sciagura eterogenea, è trasformata in una accantonante, rimandante calamità omogenea, cioè che tende ad ingrommarsi con le vicende mostrate sullo schermo, quindi non più una realtà che si scontra con i protagonisti, ma che si incontra con essi, non più separata, ma congiunta, divenendo parte intarsiante del loro stallo vitale, un tutt’uno con queste figure cascanti, un’estensione della loro malinconica personalità, che dilata il tormento e l’agonia, immortalando la disperazione. Una perpetua non-fine, insomma, che vanifica la morte, eternizzando la sua incombenza, proprio perché essa è dappertutto, ma non la si individua e percepisce come singolo elemento di frattura e di svolta, poiché è già tutto collassato, saturo di staticità, inerzia definita, più che definitiva. È più, quindi, un epilogo arrivante, che si intuisce, ma non giunge (più). Come se fosse il prolungamento (s)finito dell’apocalisse.

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Sospensione, fine e rinascita dell’Immagine cinematografica.

Probabilmente, per comprendere appieno il discorso cinematografico che Tsai propone con Stray Dogs, bisognerebbe fare un passo indietro e partire da Goodbye Dragon Inn per poi chiudere il cerchio o, meglio, il triangolo con Journey to the West.

Sospensione: Goodbye Dragon Inn è un’opera sul trascuramento nei riguardi del Cinema, sul disinteressamento verso esso, sulla fatiscenza moderna della settima arte, sull’invecchiamento prematuro della pellicola, perché tutto è considerato demodé e gli occhi non riescono più a vedere. Ciò che rimane è quindi un’Immagine fantasmatica, trasparentizzata e indebolita, proiettata dallo stesso spettatore, che risulta inevitabilmente un ectoplasma (del Cinema), nonché spettro di un pubblico inesistente, catatonico. Allora, si potrebbe precisare che Goodbye Dragon Inn è più un lungometraggio sull’assenza del soggetto osservante, sulla fine del pubblico, piuttosto che della settima arte. Di conseguenza, ecco che il Cinema chiude, decade e arranca per via della cecità e passività spettatoriali. Si deturpa, è consunto, si riempie di crepe e rughe, zoppica, perché non esiste più uno sguardo rinnovante, un gesto irrompente, e tutto viene visionato con “occhi chiusi spalancati”, con eyes wide shut. In tutto questo, cala il sipario, si chiudono i battenti, ma niente si può considerare annientato o annichilito, ma solo serrato, murato, appunto Sospeso.

Fine: ecco che Stray Dogs riprende in mano quel discorso per definitivizzarlo, finalizzare il Cinema, così da non lasciare più nulla di incompiuto. Stray Dogs entra nello specifico della settima arte, si ingloba ad essa, si insinua nell’atto filmico che di per sé è già consunto, quindi, per la precisione, si include nell’Immagine, si incrosta in essa facendola detonare dall’interno, diventando parte (dis)integrante di questa. Stray Dogs è la parte endemica, etimologica, quasi batterica di GoodBye Dragon Inn, il suo aspetto sottocutaneo, l’implosione, il discioglimento virale dell’Immagine. La visione non è più fantasmatica o immaginabile, ma completamente fisica e immaginata, proprio perché l’inquadratura è portata alla massima estensione emozionale prima dello spegnimento, al vertice espositivo relativo alla funzionalità e potenzialità del quadro visuale. Non c’è più luce. L’Immagine è andata, si è trascesa, esaurita (Fine), non è più possibile visualizzarla, inquadrarla, e di conseguenza la si può ricreare solamente tramite un’operazione regressiva e depurante, attraverso il totale rallentamento della frenesia e onnivorismo spettatoriali, tramite il riassestamento dell’andatura cinematografica, e la scarnificazione e depurazione della bulimia e ingordigia occidentali. Si arriva, quindi, alla Rinascita della settima arte, a Journey to the West.

Rinascita: ora, partendo da un ragionamento relativo alla fede nel Cinema, Tsai Ming-liang chiede al pubblico di spogliarsi, cioè di sacrificarsi al gesto formale, e ritrovare l’equilibrio cinematografico andato smarrito, per riappropriarsi della sepolta sensibilità che concerne il proprio sacrale corpo artistico, andando di pari passo con il tragitto scelto dal soggetto filmico, senza sorpassi fruizionistici ed egoistici, così per ritrovare la normalizzazione sensoriale, la ri-sistematizzazione fonologica della celluloide e procedere simultaneamente, alla stessa compassata andatura antropologica, con il cammino filosofico relativo al modus operandi del filmaker taiwanese, così da fondersi con esso e proseguire verso un nuovo percorso vitale e stilistico che concerne la deoccidentalizzazione e stabilizzazione dello sguardo. L’immagine diventa martire di sé stessa, si immola e si concede ad un nuovo modo di intendere il Cinema, alla regolarizzazione dei sensi. Si diventa dei monaci della (post)visione, nella quale ogni frame ha un peso specifico, ogni impercettibile movimento acquista un valore simbolico, ieratico e, soprattutto, riconciliante. Il pubblico, riscrivendo il proprio passo cinefilo, riabilita la verginità percettiva e assapora ogni aspetto dell’opera perché è in totale sintonia con l’Immagine. E’ un’esperienza euritmicamente parificante, Journey to the West. Allo spettatore, ora, non sfugge più nulla, perché l’occhio ha smesso di correre, ha abbandonato l’epilessia moderna, concedendosi ad un nuovo credo, risultando in simbiosi con la pellicola. Il pubblico, ora, come il personaggio interpretato da Denis Levant, segue le movenze armonizzanti del protagonista, che rappresenta la summa filosofica e artistica della poetica del regista, come se Tsai Ming-liang avesse raggiunto il suo obiettivo (dopo la fine). Il Cinema, ora, è obbligato a rallentare, a riacquistare il proprio bilanciamento naturale, a ritrovare la propria spiritualità dispersa. Journey to the West restituisce al pubblico la propria originaria congruenza esistenziale. Rovescia la famelica società delle immagini. L’andatura controllata del protagonista funge da appoggio – inteso come carica – stimolante per un nuovo modo di intendere la nirvanità dell’Immagine.

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                                          Goodbye Dragon Inn (2003)
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                                               Stray Dogs (2013)
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                                                Journey to the West (2014)

“Ho scoperto il murale tra le rovine durante i sopralluoghi per le location e sono rimasto profondamente colpito quando l’ho visto la prima volta. Su un’intera parete di una casa fatiscente, quel paesaggio familiare a Taiwan è ritratto a carboncino. È come stare davanti a uno specchio e guardare la sponda più lontana allo specchio. È al tempo stesso reale e surreale, a portata di mano e remoto all’orizzonte. Se uno ha un mondo ideale nel cuore, una perfetta sponda lontana, un luogo nel profondo dell’anima, non è forse proprio lì? Ho girato due scene davanti a questo murale, entrambe più lunghe di tutte le altre scene. Quante riflessioni sulla vita possono essere suscitate in noi da un muro così o da uno specchio?” 

– Tsai Ming-liang –

In Stray Dogs, l’immagine si finisce o, meglio, si sfinisce, si strema. Il Cinema giunge alla sua dimensione ultima. Si spegne e si dissipa. Espira da sé stesso, si libera dalla costrizione che il film inesorabilmente si autoimpone. Si supera, evadendo dai limiti dell’inquadratura, esplodendo nel fuori-campo, unico rifugio dal Cinema moderno e modernamente dispotico e despotico, dogmatico; solo riparo dall’astringente esistenza odierna. Tsai Ming-liang, pone lo spettatore davanti ad un quadro, stella cadente inchiodata al muro, che risucchia, assorbe, interiorizza i desideri, la libertà estatica, la rivalsa del movimento dei protagonisti, e, invece, rifrange, esterna, esteriorizza l’inazione vitale e il ristagno utopistico di essi, attraverso un processo di contrasti in cui nulla si esaudisce e tutto si esaurisce. La mdp indugia sui loro volti, riprendendo una disperazione silenziosa che, almeno da parte della donna, sfocia in un timido pianto, sequenza, tra l’altro, ricollegabile al finale magnetico di Vive l’Amour.

Guardando quel quadro – elemento in cui è incanalato, custodito tutto il Cinema dell’autore taiwanese -, fissando il muro, i personaggi del film (e non solo) cercano una via di fuga, un’arca che li salvi da codesto Diluvio universale; nuovi territori, un altro porto nel quale approdare; a quanto pare, però, per tutto ciò non ci sono più isole sulla quale sbarcare; non c’è più possibilità di andare oltre, anche l’aldilà è negato, perché vita e morte terminano lì, in quel murales, in quella fasulla arca immaginaria, quel rifugio fatto di cartapesta, in quell’oasi inarrivabile, come fosse un miraggio nel deserto irraggiungibile. Il viaggio si conclude qui, dinnanzi a quel fallace infinito fatto di desideri disegnati, nonché inafferrabili.

Non c’è più (s)campo filmico, quindi, anche l’uomo è costretto ad uscire dall’immagine, abbandona l’illusione, quindi il Cinema, ovvero il sogno, che rappresenterebbe quel mondo-altro, il quale non può essere riabilitato – Il Cinema quando non è documentario è un sogno, diceva Bergman -, sicché i protagonisti si congedano dalla scena, perché non c’è più spazio per auspicare, interstizio per comunicare, ecco che non c’è più terreno (fertile) per il Cinema. Cosa rimane, allora? Resta l’immobilità totale, l’ultima immagine, fotografia dell’Immagine che cerca disperatamente una (dis)soluzione cinematografica, una fine, un’ancora di distruzione, non di salvezza, che viene costantemente negata, un costante tentativo di soprammorire alla vita. È, il finale, una sequenza evocativa che, come uno specchio, riflette i vuoti dello spettatore a seconda delle esperienze che esso ha vissuto. In una scena di pura metafisica dell’immagine, il quadro perde le sue possibilità apotropaiche, portando così lo spettatore e la visione verso una dimensione di totale immanenza, come se fosse un impercettibile incontro momentaneo degli opposti, ossia una sorta di sequenza dumontiana, di altissimo Cinema. Una scena straordinaria, potentissima, immobilizzante, in cui avviene una totale saturazione emotiva (o di emozioni residuali) dell’Immagine, di conseguenza, questa, giunge alla sua tensione ultima. È (s)tesa al massimo, portata al limite del riempimento percettivo, senza però che avvenga alcun traboccamento filmico, come se rimanesse congelata durante il climax sensoriale ed evocativo. il quale, dopo la fine (non è forse Stray Dogs, appunto, un film dopo la fine?) sfocia, si discioglie in un black out ammutolente, disorientante, in un buio che risulta inevitabilmente catartico, agglomerante e solenne. Fine.

Ora rimane l’abisso che deflagra in un silenzio devastante, infinito, perchè quel buio arriva quando l’Immagine non (r)esiste più ed è al suo massimo livello di reazione. Quel buio arriva come atto salvifico, in cui tentare di scomparire diviene necessario, l’unica soluzione possibile. La salvezza coesiste con la distruzione: come già detto prima, è l’Immagine che tenta di soprammorire al Cinema (alla vita). Il pubblico è pietrificato e liberato, immerso ora in quell’oscurità fondativa che fa sì che il film prosegua nella mente di chi osserva , fino ad implodere per capacità ricordativa ed intensità recettiva, nonché accumulativa, e stratificarsi verso inesplorati territori mnemonici.

Un finale che annichilisce e ipnotizza lo spettatore, il quale vorrebbe, inconsciamente, che la suddetta sequenza non finisse mai, poiché essa è anche (e soprattutto) la terminale possibilità per ciò che concerne la condivisione dello sguardo verso la stessa e conclusiva visione [si pensi, per l’appunto, ai due soggetti osservanti nella relativa ending scene].

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Nell’excipit – se così si può chiamare – viene mostrata al pubblico una fine che non sta accadendo, ma che è già accaduta, superata. Lo sguardo si fossilizza in ciò che è già avvenuto. Ciò che si percepisce in Stray Dogs è quasi un’apocalisse asincrona, a scoppio ritardato, l’eco della fine. È un contemplare finito, non infinito, proprio perché lo Spazio-tempo è sospeso, congelato, disintegrato e, soprattutto, sgonfiato, quindi, a conti fatti, ciò che si percepisce è solo l’ombra della catastrofe.

C’è un’altra sequenza complessa: quando l’uomo divora il cavolo avviene un punto di rottura, un momento di non ritorno: l’incuria e lo sconforto dell’umanità, che approda verso una esasperata animalità. Una sorta di involuzione ontologica che strizza l’occhio alla tragedia greca: l’uomo, abbandonato a sé stesso da sé stesso, si è ridotto così, giustappunto, con le proprie mani, il mondo sta sprofondando colpa dei suoi abitanti, delle persone, affondando nella disgrazia da loro auto-inflittasi. Non c’è Dio, perché lo si è lasciato morire, ed è l’uomo il solo e ultimo Dio – un concetto parecchio nietzschiano -, colui che crea la rovina con la quale, poi, convivere. Cul de Sac di una Teodicea moderna, quindi, in cui l’essere umano è l’artefice e la vittima del giudizio universale, dell’eterno diluvio in questa metro/necro-poli; è quindi l’uomo che subisce questo supplizio ed è anche, al contempo, il Dio che (se) l’impone. Ed ecco attuarsi l’atto della tragedia greca: Lee Chang diviene sia il Tantalo che vuole vendicarsi, per via della più totale desolazione a cui è costretto, dando da mangiare un proprio famigliare [il cavolfiore umanizzato] al Dio artefice della carestia, ed è anche, però, questa divinità la quale divorerà, come estremo dispetto e castigo, l’ortaggio. Ed ecco che si entra in un loop illimitato di vendetta e punizione nel quale la miseria non avrà mai fine, perché risorgerà dalle proprie ceneri, cercando perpetuamente un colpevole che non esiste, perché non è nient’altro che il Dio/Uomo che applica/patisce la condanna. Come una spersonalizzante reazione chimica, un’esplosione identitaria, si abbandonano sia le sembianze umane che quelle divine, perché, appunto, si fagocitano a vicenda, e ciò che rimane è una solitaria bestialità.

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Stray Dogs con Il Cavallo di Torino, formano un dittico epocale sulla fine dell’immagine. Entrambi portano avanti un discorso definitivo sulla morte del cinema, della visione e, soprattutto, dell’uomo.

Stray Dogs ha una forza impressionistica fuori dal comune. Un’opera caratterizzata da un ipnotico lirismo ellittico, con tanto di sublimi e lunghissimi piani sequenza, perfetti per evidenziare maggiormente la desolazione che caratterizza l’opera. Vertice di sottrazione (attoriale e formale) e poesia minimale sull’irreparabilità del tempo. Il canto del cigno del regista taiwanese, nonché l’urlo silenzioso di Tsai Ming-liang al Cinema. Un big bang visuale dell’emozione, il collasso elegiaco della stasi antropologica. L’apice anti-narrativo della sua poetica, quindi, paradossalmente, un’operazione che non cerca di compiacere al pubblico, infatti a tal proposito il filmaker dichiara: “(…) non voglio girare una cosa che tu sicuramente capirai, perché se giro una cosa in modo che tu la capisca alla fine io divento un po’ te. Io voglio girare me stesso… Io giro quello che esprimo… Quando ho mostrato il film a Taiwan molte persone mi hanno detto <<non ho capito>>. E io rispondevo ogni volta <<va bene così!>>.” 

L’autore in questione è anche un architetto dell’inquadratura, perché crea virtualmente lo spazio attraverso il fuori-campo, che, in questo caso, porta al limite estremo la sua cifra stilistica . Egli non è un narratore, è piuttosto un pittore di abbandoni, che siano essi territoriali, mentali o fisici.

Cinema di tormenti, di lacrime che si mischiano alla pioggia, la stessa che non da tregua ai protagonisti delle sue pellicole (The Hole, Fiume, etc), sottoposti allo scorrere inesorabile del tempo che rispecchia la potenza dell’acqua. In fondo, assistere ai film di Tsai è come ammirare (e cercare) la luce nel mentre che si sta sotto la pioggia.

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Voto: ★★★★★                                                                                                – di Manuel Piras –

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