He

He (2012) – Rouzebeh Rashidi     ⇒ English version at the bottom

Tra i film meglio riusciti di Rashidi troviamo “He”, che affronta in modo estremamente originale il tema del suicidio fornendoci un ritratto misterioso e inquietante di un uomo intenzionato a togliersi la vita. Non ci si potrebbe aspettare diversamente da un regista come Rashidi, naturalmente predisposto alla sperimentazione, sempre alla ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico, rifiutando i suoi canoni.

La vicenda viene per lo più narrata dal protagonista, un inquietante James Devereaux, mediante dei monologhi e, successivamente, dei dialoghi con un amico a cui rivela la propria intenzione. Tali sequenze, che sono il fulcro dell’intera opera, sono alternate da delle scene in cui il protagonista vaga in alcuni edifici vuoti, ha dei comportamenti che appaiono senza senso, come tirare a calci gli oggetti, usare l’estintore impropriamente, o cercare qualcosa indossando una strana tuta, simile a quella antiradiazioni. Una simile struttura narrativa non è di facile comprensione, risultando arduo distinguere ciò che sta realmente accadendo o che è accaduto in passato da quello che potrebbe essere, invece, un viaggio onirico all’interno della mente del protagonista, in cui realtà e sogno sono tutt’uno, imprescindibili.

La vicenda del protagonista appare annessa a quella di una coppia gravata da un serio problema: il marito, completamente insensibile, si trova in un misterioso stato catatonico, lontano dalla realtà percepibile dalla moglie che non riesce in alcun modo a fare breccia nel muro impenetrabile innalzato dal suo compagno. Tra loro regna l’assenza totale di comunicazione, sia fisica che verbale. La connessione tra le due vicende è evidente, ma non chiara. Infatti, le sequenze che vedono i due coniugi per protagonisti rimandano a quelle che si alternano ai monologhi dell’uomo intenzionato al suicidio, in particolare a quelle in cui indossa la strana tuta. I due soggetti sono afflitti dallo stesso male, ovvero la repulsione per la vita, anche se la modalità con cui si manifesta è differente, quasi opposta: uno contempla il suicidio mediante la parola, l’altro attraverso un silenzio estatico che mostra la sua criptica volontà di sciogliere ogni legame con l’esistenza sensoriale e, di conseguenza, con la vita. I due, dunque, appaiono contrastanti e uguali allo stesso tempo, ed è proprio quest’ultimo carattere a prevalere, suggerendo addirittura l’idea che siano in realtà la stessa persona in un momento differente del processo che conduce alla decisione di togliersi la vita.

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La tecnica della regia è quella sperimentale propria del cinema di Rashidi, in cui il montaggio assume una rilevanza decisiva, così come il suono e l’immagine curata nei minimi dettagli con un uso strepitoso del colore.

Un’opera di inaudita bellezza, che non teme il confronto con film di alto livello che trattano lo stesso argomento, in primis “Il diavolo probabilmente” di Robert Bresson. Rashidi si conferma come uno dei migliori registi d’avanguardia degli ultimi tempi, in grado di esprimere, grazie al suo modo personale di fare cinema che mette in continua discussione le leggi su cui si fonda il cinema stesso, anche temi delicati come il suicidio.

Voto: ★★★★☆

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