In a Lonely Place

In a Lonely Place (2016) – Davide Montecchi

Un inizio shock, d’impatto: nel salone di un imponente edificio, legata ad una sedia, una ragazza chiede disperatamente aiuto e pietà, mentre il suo carnefice, un uomo in uno stato di evidente squilibrio mentale, si aggira per la stanza intento a pronunciare misteriosi declami.

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La vicenda si delinea gradualmente con l’avanzare del film, grazie alla presenza di numerosi flashback evocativi, che si alternano alla sequenza narrativa principale. Veniamo a conoscenza che Thomas, il carnefice, è un fotografo che con la scusa di un servizio fotografico ha condotto nel suo hotel fuori città Teresa, una modella di cui è intimamente innamorato, per poi sequestrarla. Dietro a questa azione che appare espressione di pura follia umana, sembra celarsi in realtà una motivazione profonda, la ricerca di una verità lontana.

Una trama non sconosciuta al mondo del cinema diviene per Montecchi l’occasione per plasmare un’opera di grande livello e spessore, nonostante l’esiguo budget a disposizione e l’impiego di soli due attori.  A partire dalla prima sequenza, lo spettatore si compiace di uno stile curato, di un uso sapiente dello spazio e di una regia elegante che si caratterizza per la lentezza dei movimenti della cinepresa. Non mancano, inoltre, tematiche di grande profondità, quali l’amore, la verità e, in particolare modo, la solitudine. La fotografia conferisce al film un valore aggiuntivo: i fasci di luce che filtrano all’interno dell’hotel illuminano i volti e gli ambienti che altrimenti rimarrebbero sommersi nell’oscurità. Si viene a creare, così, un’atmosfera onirica e surreale che avvolge la realtà descritta e rafforza quel senso di solitudine che permea tutto il film.

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È proprio la solitudine il sentimento che accomuna e unisce i due protagonisti. Nei flashback assistiamo alla testimonianza accorata di Teresa che rivela di sentirsi sola, incompresa, diversa, proprio come Thomas, il quale, in uno dei suoi deliri, inveisce contro la Solitudine, accusandola di averlo allontanato dal mondo. Alla luce di ciò, Thomas e Teresa appaiono molto più simili di quanto si potesse presumere in partenza. L’ambientazione rispecchia appieno la condizione interiore dei due protagonisti: l’hotel, ormai in disuso, è un edificio enorme, buio, che si erge nella desolazione più totale.

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Spesso, quasi ossessivamente, il regista inquadra il riflesso dei personaggi nei vari specchi e superfici riflettenti che invadono l’edificio, come se volesse riflettere all’esterno la loro interiorità. Non a caso il movente che spinge Thomas ad infliggere pene strazianti alla sua amata risulta essere quello di rivelarle la sua essenza più profonda e di farle accettare se stessa per ciò che scopre di essere. Illuminanti al fine di comprendere il film sono le parole pronunciate dalla ragazza in una VHS: “Potrei innamorarmi veramente solo di qualcuno che mi farà capire chi sono nel profondo”. Ecco che Thomas, nonostante la sua parvenza da psicopatico, appare animato dal desiderio sincero di aiutare Teresa portando alla luce la sua componente più oscura e animalesca che custodisce nel profondo e di cui si vergogna, ritenendosi diversa e strana.

Nel finale, però, proprio quando ci sembra di aver individuato la direzione del film, tutto quanto viene messo in discussione.

Al suo primo lungometraggio, Davide Montecchi realizza un thriller psicologico estremamente coraggioso e ben architettato. Il film s’impone soprattutto come un’esperienza sensoriale di incredibile potenza.

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Voto: ★★★☆☆

 

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